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La Madonna del Rosario

La Madonna del Rosario

LA MADONNA DEL ROSARIO CON I SANTI DOMENICO E CATERINA DA SIENA

Nel presbiterio della chiesa di Sant’Egidio a Mantova, sul lato sinistro della curvilinea parete absidale, è la tela raffigurante la Madonna del Rosario con il Bambino e i santi Domenico e Caterina da Siena. È posta di fianco al Martirio di san Vincenzo Levita, di Giuseppe Bottani (1776) e à pendant del Miracolo di san Vincenzo Ferrer, del fratello di lui, Giovanni (1773), inserita in un’identica incorniciatura a stucco.
Datata genericamente al secolo XVIII nell’inventario del 1939, l’unico che la menzioni, è stata immeritatamente trascurata dalla critica, forse per la collocazione decentrata o per la difficoltà di una plausibile attribuzione.
La collocazione dei tre dipinti non è originaria: provengono dalla chiesa di San Vincenzo, dell’antico vicino convento delle monache domenicane, soppresso tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. In essa si trovano il Martirio all’altar maggiore, gli altri due agli altari bassi, per i quali dovevano essere stati eseguiti.
Nel novembre del 1813, ridotto il complesso conventuale a magazzino militare, dopo un tentativo di rendere la chiesa sussidiaria di Sant’Egidio, i dipinti, insieme ad altri arredi, furono trasferiti in quest’ultima. Il Martirio fu posto all’altar maggiore, mentre gli altri due, accolti temporaneamente in canonica, nel 1833 furono posti alle pareti della navata. Tolti nel 1848, furono infine sistemati accanto al Martirio nell’abside, come oggi si vede, sul finire dell’Ottocento, con la ristrutturazione dell’edificio promossa dal parroco Amedeo Bacchelli. Di essa è il ricordo nell’iscrizione (sopra la porta sul lato sinistro della navata, accanto all’ingresso) che celebra la riconsacrazione della chiesa l’8 giugno 1900 da parte del vescovo Paolo Carlo Origo.
In un opuscoletto manoscritto sulla storia della chiesa, steso in due copie nel 1852 da Luigi Rosso, canonico di Santa Barbara, che per molti anni aveva preso parte alla vita della parrocchia probabilmente come vicario, la Madonna del Rosario risultava «opera perfetta del celebre Vincenzo Borroni», ma, poiché l’autore aveva anche aggiunto «scolaro di Giulio», certo riferendosi a Giulio Romano, l’attribuzione ci aveva lasciati perplessi: il canonico, che tra l’altro in varie altre occasioni aveva dato notizie non affidabili, non sembrava avere le idee chiare sul pittore indicato.
La tela, ad una prima analisi, dal punto di vista formale, era da ascriversi sicuramente a mano “foresta”, ben lontana dai modi dei maestri locali, e di buon livello, come d’altronde era da aspettarsi, data l’importanza del soggetto raffigurato, dalle scelte della stessa committenza. Il confronto con le poche fotografie di lavori attribuiti al Borroni da noi rinvenute, sempre in contributi riguardanti il padre Giovan Angelo, con il quale egli aveva spesso collaborato, non aveva dissipato le incertezze, per cui in una nostra scheda sul dipinto ci si era limitati ad assegnare l’opera ad un generico maestro lombardo, che aveva accolto insegnamenti emiliani e veneti, e a considerarla antecedente ai due esempi dei fratelli Bottani, rispetto ai quali appariva stilisticamente in ritardo.
A risolvere la questione è giunta casualmente, come spesso accade, un’indicazione del dott.Nicola Fiasconaro, della Fraternità Domenicana, preziosa “memoria storica” delle vicende della parrocchia. Ricordava che la tela era stata restaurata intorno al 1940 per interessamento dell’allora parroco, Casimiro Brunelli, e che, durante la pulitura, erano tornate visibili la firma dell’autore e la data.
Esse si trovano in una posizione tale da essere difficilmente individuabili dal basso e da lontano, ed infatti erano sfuggite a tutte le nostre ricognizioni. Nella piccola medaglia che pende dal rosario che san Domenico offre con la destra alla Vergine, appena sopra lo stelo dei gigli, si legge: «VINCENZO BORONI F. 1777».
Il dipinto dovrebbe essere stato quindi commissionato in concomitanza con quelli dei due Bottani, o al massimo un poco più tardi, ed è possibile che proprio i due fratelli abbiano suggerito alle monache il nome del Borroni, anch’egli cremonese.
Il pittore, dopo la scomparsa del padre nel 1772, ne aveva accolto l’eredità artistica ed era rimasto attivo fino al 1782. La sua fama, ai suoi tempi, doveva essere notevole e, date le parole elogiative del Rosso, doveva essere durata a lungo.
La tela, ad olio, misura cm 228 x 135. L’inserimento nell’incorniciatura a stucco che l’accoglie ha comportato riduzioni, palesi soprattutto nel senso della larghezza (sono incomplete sia le immagini di santa Caterina a destra che quelle del bambino e del cane a sinistra).
La scena, pur impostata su uno schema accademico (è ambientata in un atrio a colonne, schermato in parte da un tendaggio raccolto di lato; i personaggi sono disposti gerarchicamente, a impianto piramidale), è risolta con ariosa libertà.
Una grazia particolare negli atteggiamenti collega tra loro in special modo le due figure femminili e il piccolo Gesù, in un fluido movimento accompagnato dall’andamento del panneggio. I loro incarnati, dai riflessi madreperlacei, come quelli delle tre testine di cherubini nell’alto, si accordano alla gamma cromatica delle vesti di Maria, chiara e brillante. Per contro non mancano gli accenti realistici nella figura di Domenico e, soprattutto, nel gustoso dettaglio del cane e del bambino che, ditro di lui, sembrano contendersi per gioco una doppia candella accesa, illuminati dal suo riverbero: originale interpretazione della simbologia legata al santo.

Maria Giustina Grassi

Per più precisi dettagli: M.G. Grassi, Segnalazione su una pala ritrovata del pittore settecentesco cremonese Vincenzo Borroni, in «Arte Lombarda», Nuova Serie, Centotrenta, 2000/3, pp.144-146.