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La Deposizione con il cardinale Ercole Gonzaga

La Deposizione con il cardinale Ercole Gonzaga

LA DEPOSIZIONE CON IL CARDINALE ERCOLE GONZAGA

Tra le tele poste agli altari della chiesa parrocchiale di Sant’Egidio, un particolare interesse, sia dal punto di vista storico che da quello artistico, riveste la Deposizione di Cristo nel sepolcro con il cardinal Ercole Gonzaga.
È collocata al secondo altare a destra, entrando, ed è di notevoli dimensioni (m 3.20 x 2.20). Fu trasferita in Sant’Egidio nel 1813 dalla soppressa chiesa di San Vincenzo, appartenente al convento delle Domenicane: là si trovava nel coro interno delle monache. Nella nuova sede ebbe la sua definitiva collocazione probabilmente nel 1848, durante i lavori di ristrutturazione voluti dall’allora parroco, don Martino Mosca (Rosso, 1852). In questa occasione la parte superiore venne tagliata a centina (come risulta dalla relazione del restauro del 1989, per la mostra di Giulio Romano; Billoni – Negri, 1993).
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Il tema della “Deposizione del corpo di Cristo nel sepolcro”, derivato dai Vangeli ma reso popolare nelle arti figurative solo alla fine del Medio Evo per la duplice influenza delle confraternite e delle sacre rappresentazioni, è interpretato secondo lo schema usuale, rispettando sia la distinzione dei ruoli che la posizione dei principali personaggi. Giuseppe d’Arimatea cala il cadavere dalla parte superiore e accanto a lui è Giovanni, che ne tiene piamente il braccio sinistro; Nicodemo ne sorregge le gambe e ha vicino Maddalena, con il vaso degli unguenti; la Vergine, dal alto del capo, sviene silenziosamente tra le braccia di una delle “Marie” (Maria di Cleofa? La seconda, qui eliminata, potrebbe in alternativa riconoscersi nell’anziana “pia donna” alle spalle di Maddalena; le figure canoniche gravitanti intorno al Cristo sono infatti sette).
Gli abiti, se si eccettua quello di Nicodemo, come di consueto di foggia orientale, sono semplici e severi, genericamente ispirati all’antico.
L’azione si volge all’ingresso di una grotta naturale. Lontano, contro il cielo illuminato dai bagliori del crepuscolo, si stagliano le tre croci del Calvario. Nella zona inferiore del dipinto,a sinistra, in primo piano, è raffigurato inginocchiato il cardinal Ercole Gonzaga, probabile committente.
Ercole, forse il più colto tra i figli di Isabella d’Este, allievo del filosofo Pietro Pomponazzi, mecenate di Giulio Romano e personalità di spicco nella politica del tempo, fu vescovo di Mantova (1521-1563) e resse lungamente il governo del ducato durante la minore età dei nipoti Francesco e Guglielmo.
Nel dipinto è raffigurato ormai anziano, probabilmente poco prima della sua partenza per Trento, città nella quale era stato chiamato a presiedere la sessione conclusiva del Concilio (1561) e dove morì (1563).
Insieme a lui si scorgono san Domenico (inequivocabile la piccola stella sulla sua fronte) e una santa domenicana.
I tre personaggi assistono, quasi si trattasse della scena di una Sacra rappresentazione, alla deposizione del corpo del Salvatore nel sepolcro: il cardinale, rivolto verso i fedeli, con il suo gesto li rende partecipi e li invita alla meditazione e alla preghiera. È, questo della “Deposizione”, il nucleo principale della composizione. Nato a sé stante, probabilmente da un prototipo (disegno o dipinto) di Giulio Romano, come dimostrano un’incisione di Diana Scultori attuata tra il 1561 e il 1565 (Bellini, 1991) e un disegno del Museo di Budapest (Zentai, 1998), è ripetuto in due dipinti di modeste dimensioni, una tavola della Galleria Borghese di Roma e una tela di una collezione privata mantovana.
Sia l’incisione che i disegni e i due dipinti hanno però una figura in più, una delle “Marie” (Maria Salome?) a sorreggere il corpo della Vergine. Questa figura nella tela di Sant’Egidio risulta coperta in un intervento coevo (Billoni – Negri, 1993), quasi si fosse voluto dare maggior evidenza al gesto della santa domenicana e insieme alleggerire il gruppo in primo piano.
Già da queste prime indicazioni il dipinto non appare di facile lettura: a complicarne la comprensione, si leggono in essa tre scritte. Una, in caratteri ebraici, si trova sul lato visibile del sarcofago, semicoperta dal lenzuolo funebre: La traslitterazione di essa si deve a Brown (1989) e la si trascrive per comodità: “Matzevet Kevurat R’ Yosef ben R’ Matityanu. N’ Ts’ B’ H’”. Questa la traduzione italiana: “Pietra del sepolcro di Rabbi Yosef, figlio di Mattatia; sia l’anima sua legata nel vincolo della vita”: La formula “sia l’anima sua…” ha la sua origine nella Bibbia, I Samuele, cap. 25, versetto 29; si trova anche ai nostri giorni sulle lapidi dei cimiteri ebraici, accanto ai nomi dei defunti (per la traduzione e il commento, Vittore Colorni, 1992). “Rabbi Yosef” rimanda intuitivamente a Giuseppe d’Arimatea, il ricco consigliere del Sinedrio, discepolo occulto di Gesù che, ottenuta da Pilato la consegna del cadavere del Nazareno, aveva provveduto insieme a Nicodemo alla sua sepoltura, ponendolo nella tomba nuova che aveva fatto scavare per sé nella roccia. Non si escludono però altre ipotesi.
La seconda scritta è in basso, sotto i tre chiodi e la corona di spine. È in lettere dorate: “ALT. S. PETRE”, ed è seguita da uno strano asterisco, anch’esso dorato. Secondo Ferlisi (2007) si riferisce all’originaria posizione della pala nel coro delle monache, sull’altare che documenti recentemente trovati testimoniano dedicato al Santo Sepolcro (“Santa Pietra”).
La terza è posta sul lato destro della tela, ai piedi della “pia donna” che sorregge la Vergine: “S.A.G.V.”. Di essa si dirà più avanti.
A destra nella tela è la figura di una domenicana, che la tradizione identifica con la beata Osanna Andreasi, la critica più recente con la Venerabile Margherita Torchi. Piuttosto bassa di statura, di corporatura un po’ pesante nella sua divisa bianca e nera, tende la destra verso il sepolcro. I lineamenti del volto, specie il naso, a guardar bene hanno una spiccata somiglianza con quelli di Ercole Gonzaga, posto dall’altro lato. Un ritratto, visto per caso in una dimora amica, ha tolto di mezzo ogni dubbio: si tratta di Ippolita, terzogenita di Francesco Gonzaga e di Isabella d’Este, sorella del cardinale, monaca fin dal 1518 nel convento di San Vincenzo, dal quale il dipinto proviene. Ne dà conferma anche il ritrattino della collezione di Ambras, in cui però appare in più giovane età.
A sinistra della tela, dietro il cardinal Ercole, la mano destra famigliarmente appoggiata alla sua schiena, è un domenicano. La piccola stella dipinta sulla sua fronte fa ravvisare il lui lo stesso san Domenico. Il volto e il gesto sono però talmente caratterizzati da far pensare a chi guarda che altri abbia prestato al santo la propria fisionomia. Altri … ma chi in particolare? Qualcuno certo che era molto vicino al cardinale, quasi un secondo padre.
Si era pensato in un primo momento a frate Angelo, dell’ordine dei domenicani appunto, maestro di teologia di Ercole, che aveva goduto la stima non solo del cardinale ma anche dei componenti della sua cerchia ideologica (Gaspare Contarini, Gregorio Cortese) negli anni precedenti il concilio di Trento (Piva, 1988). Ercole si era fatto ritrarre insieme a lui, ma il dipinto è andato perduto togliendoci la possibilità di un riscontro.
Sono giunte invece sino a noi, insieme alle lettere alle quali erano apposte, le impronte del sigillo che Ercole, giovane studente a Bologna, usava per le sue comunicazioni private, alla madre Isabella d’Este, alla quale era molto legato, al fratello Federico, da qualche anno marchese di Mantova: siamo nel 1525 (Archivio di Stato, Mantova). Il sigillo recava il ritratto, a mezzo busto e di profilo, di Pietro Pomponazzi, il filosofo mantovano che teneva le sue lezioni all’Ateneo di Bologna. Intelligente, facondo, amabilissimo: Ercole, diremmo oggi, ne aveva fatto un mito. Emilio Faccioli riporta la fotografia di una delle impronte in una tavola del suo Mantova: le lettere (1962) a illustrazione del capitolo sul Pomponazzi. Ebbene, la conformazione del capo, la forma del naso sono quelle del san Domenico. Il Peretto (così era familiarmente chiamato il Pomponazzi) voluto dunque da Ercole accanto a sé nelle vesti del santo e quale suo protettore? Sarebbe un’ulteriore prova della venerazione che il cardinale aveva per il suo maestro e, forse, una presa di posizione in favore del suo pensiero.
Il dipinto, come ipotizzò a suo tempo Chiara Perina, dovrebbe essere stato commissionato da Ercole Gonzaga. L’esecuzione dovrebbe cadere intorno al 1560 (posteriore al testamento di Ercole del 1557) e il dato potrebbe essere abbastanza sicuro anche pensando ad Ippolita come “altra” committente (nata nel 1501, doveva essere sui 60 anni). Resta il problema della figura della “Maria” eliminata in un secondo tempo, e quello della scritta sotto le due rimaste: S.A.G.V. Nel convento di San Domenico, che già accoglieva Ippolita, entrò nel 1556 Anna, figlia naturale di Ercole (ricordata con un cospicuo legato sia nel testamento del 1557 che in quello del 1563: comunicazioni tutte di don Giuseppe Pecorari, attento studioso di storia mantovana, che ricordiamo con profonda riconoscenza). Anna, come scrive l’Amadei nella sua Cronaca di Mantova, scomparsa la zia materna nel 1570, ne curò personalmente la sepoltura nel coro interno delle monache. È probabile che a lei si debba l’eliminazione della “Maria”, nell’intento di sfoltire le immagini sulla destra della composizione e di mettere in maggiore evidenza il gesto e la figura della domenicana.
Sulla scorta di questa ipotesi si è tentato anche di decifrare la scritta sottostante, che potrebbe essere così sciolta: S[oror] A[nna] G[onzaga] V[oluit]: quasi una firma cifrata.
L’intervento sul dipinto, secondo i restauratori Billoni e Negri è da considerare antico e non molto lontano dal momento della sua esecuzione. Posteriore alla scomparsa di Ippolita, potrebbe essere avvenuto nei primi anni ’70. Era allora ancora vivo Fermo Ghisoni da Caravaggio (1504-1575), che era stato dapprima alla bottega di Lorenzo Costa il Vecchio, poi di Giulio Romano. Considerato da Ercole tra i migliori artisti al suo servizio (suoi sono ad esempio la Santa Lucia e il San Giovanni Evangelista per il ciclo della cattedrale , del 1552), abile ritrattista, aveva dipinto per il cardinale proprio un ritratto di Pietro Pomponazzi (anche questo scomparso).
Spostare a lui la tradizionale attribuzione ai Costa non parrebbe ipotesi da sottovalutare ed è avallata dal parere di Renato Berzaghi (2005). Senza entrare nel merito della questione, si può osservare che, pur dando per certa la matrice giuliesca della composizione (l’originale scorcio del sarcofago e del corpo di Cristo, visto di schiena, si ha anche nella coeva Deposizione del Palazzo Ducale, che dipende da un disegno assegnato dalla critica al maestro), diverso è il segno, teso ad addolcire i lineamenti ed a rendere più morbidi i volumi.
L’espressività di Giulio, che nell’incisione della Scultori e nel disegno di Budapest risulta caricata e forzata, è qui risolta, specie nella figura di Giuseppe d’Arimatea, con accenti di profonda malinconia.
Anche il colore, nonostante i rossi dell’abito cardinalizio e del manto di Maddalena, si compone in toni smorzati, rosa lilla, verde oliva, paglierino, fino alla gamma raffinata dei grigi, rialzata in parte da lumeggiature, degli abiti a lutto delle “Marie”: memore di ricordi veneti ed emiliani.
Da sottolineare inoltre la sottile interpretazione psicologica nei volti dei tre religiosi.

Maria Giustina Grassi

L’articolo riunisce le notizie pubblicate in «Diapason» nel 1992 e nel 1993, e in «Civiltà Mantovana» nel 1993, insieme a Giuseppe Billoni e a Marco Negri, aggiornate.