Salta navigazione.
Home

La disputa di Gesù nel tempio con i dottori

La disputa di Gesù nel tempio con i dottori

LDISPUTA DI GESU' NEL TEMPIO CON I DOTTORI

Alla parete destra della chiesa di Sant’Egidio a Mantova, tra il secondo e il terzo altare, si trova la tela raffigurante la Disputa di Gesù nel tempio con i Dottori, di Giulio Cesare Arrivabene.
La posizione è apparentemente anomala (dovrebbe essere una pala d’altare), ma si può spiegare risalendo nel tempo attraverso i documenti d’archivio e le notizie lasciateci nei suoi manoscritti dal canonico Luigi Rosso (1852). Don Martino Mosca (parroco dal 1845 al 1855), in previsione della processione del Corpus Domini, che si teneva in città ogni sette anni e che nel 1848 avrebbe visto la parrocchia promotrice dell’evento secondo i turni stabiliti (in realtà non ebbe luogo per i noti motivi politici: gli Austriaci temevano disordini), pose mano al riordino dell’interno dell’edificio. Tra le altre innovazioni, si fecero costruire il baldacchino sopra l’altar maggiore e il nuovo organo, tuttora presenti, e si attuarono alcuni spostamenti delle pale agli altari.
Interessa in particolare a noi quello che vide passare la tela con Sant’Egidio in venerazione della Madonna di Giuseppe Orioli in una posizione più importante, dal secondo al terzo altare a destra, che fino ad allora era stato legato alla confraternita della Dottrina Cristiana. La sua pala, che sappiamo eseguita per il rettore Bellana intorno al 1735 da Giovanni Cadioli, raffigurava la Disputa di Gesù nel tempio con i Dottori: essa fu tolta e, a quanto informa laconicamente il Rosso, “sparì”. Infatti non se ne è trovata alcuna traccia successiva.
Le altre, insieme a quelle levate dalle pareti della navata e dal presbiterio (in tutto ben tredici) furono sistemate nei locali della canonica. Alcune erano del Bazzani e secondo l’inventario del Matthiae (1935) una, allora ancora in canonica in cattivo stato, rappresentava lo stesso soggetto di quella del Cadioli (la Disputa) e si trovava in precedenza proprio sulla parete destra della navata, tra il secondo e il terzo altare.
Torniamo alla metà dell’Ottocento. Dalla chiesa erano state dunque tolte dal Mosca sia la Disputa del Cadioli che quella del Bazzani. Il soggetto dei due dipinti doveva rivestire una particolare importanza dal punto di vista liturgico per la parrocchia (e per la confraternita, privata dell’altare), tanto da indurre negli anni ’60 la contessa Fanny Magnaguti Revedin, moglie del conte Ercole, a commissionarne uno nuovo: come sappiamo i suoceri Ludovico e Faustina Rondinini avevano da non molto tempo (1848) fatto restaurare la cappella ex Valenti, a destra del presbiterio, di cui la famiglia aveva acquisito il giuspatronato. Sembra che in un primo momento si fosse deciso di inserire il quadro in essa.
La commissione fu data, affrontando, si pensa, una spesa non indifferente, a quello che allora era uno dei più ammirati pittori mantovani, quotato anche in ambito internazionale, Giulio Cesare Arrivabene. Eseguita nel 1866, la tela però non fu posta nella cappella restaurata (che d’altronde aveva già la sua pala giuliesca, ancor oggi presente): concessa in uso alla parrocchia, pur restando di proprietà dei Magnaguti, fu sistemata a parete al posto di quella del Bazzani, della quale aveva più o meno le dimensioni (m 2,25 x 1,82 contro 2,30 x 1,70; Matthiae, 1935), certo considerata troppo “barocca” per l’ambiente rimodernato e quindi definitivamente accantonata.

Giulio Cesare Arrivabene (Mantova 1806 – Firenze 1896), figlio del conte Ferdinando, apparteneva alla famiglia che diede alla Mantova risorgimentale molte figure di patrioti, come Giovanni, Giuseppe, Carlo, Silvio, Francesco e la moglie Teresa Valenti Gonzaga, questi ultimi ricordati nella lapide alla parete sinistra della cappella Valenti-Magnaguti.
Come scrive il fratello Opprandino (1838), mostrò «sino dai primi anni una forte inclinazione per le arti del disegno, alle quali in onta alle molte traversie domestiche si diede a tutt’uomo. Passato a Milano, fu accettato come allievo dal professore Luigi Sabatelli, che gli fu per molti anni non solo maestro, ma ancora padre».
Luigi Sabatelli (Firenze, 1772 – Milano, 1850) era stato chiamato alla cattedra di pittura presso l’Accademia di Brera fin dal 1808. Considerato il maggiore esponente della corrente neoclassica a Firenze, temperata dalla tendenza al recupero della tradizione del Cinquecento toscano, abilissimo come frescante e come disegnatore, si era affinato attraverso i contatti con il pittore francese Ingres e, nella fase matura, si era volto al Romanticismo storico.
Su questa strada lo seguì l’Arrivabene nella sua intensa attività, svoltasi non solo a Mantova o per Mantova, ma soprattutto a Roma e a Firenze, che a quel tempo erano i due poli della vita artistica e culturale italiana, frequentati da numerosi artisti provenienti da ogni parte d’Europa. Ne sono esempi due dipinti tra quelli ancora conservati a Mantova, Amano sorpreso da Assuero in ginocchio davanti ad Ester (Pinacoteca del Palazzo Ducale), eseguito nel 1883 per un concorso tenutosi a Brera, ed Enrico IV implorante il perdono (Accademia Nazionale Virgiliana), dai titoli altisonanti, piuttosto macchinosi nell’ideazione, quasi fossero scene di teatro calate sulla tela.
Certo nei suoi soggiorni a Roma l’Arrivabene ebbe contatti con l’Overbeck e la corrente dei Nazareni, ispirata alle opere del primo Rinascimento e rivolta al recupero di contenuti religiosi e, sia a Roma sia a Firenze, con il Minardi, il Mussini e i Puristi, che dai Nazareni avevano preso le mosse, mirando ad una maggiore essenzialità e semplicità delle strutture compositive.
La sua vasta produzione, seguita passo a passo e lodata negli articoli della locale « Gazzetta», attende tuttora un accurato studio e un’adeguata rivalutazione, in parallelo a quanto già si è fatto in ambito nazionale per altri trascurati o dimenticati artisti suoi contemporanei. Essa va considerata non dal nostro punto di vista, fin troppo smaliziato e spesso arbitrariamente intransigente, ma nel contesto in cui è nata, che richiedeva oltre ad una basilare preparazione accademica, tecnica e formale, e ad un collaudato “mestiere”, una scelta di temi di chiaro significato etico e religioso ispirati alla storia e ai testi sacri e volta all’educazione del fruitore.
Si spiegano in tal modo le complesse composizioni scenografiche, le pose statuarie e i gesti dei personaggi (per noi oggi retorici), così come la particolare gamma coloristica, che risentono dell’esser stati creati nel chiuso dello studio dopo una meticolosa meditazione, sia delle opere già citate che della grande tela raffigurante Sant’Antonio da Padova che rimprovera Ezzelino da Romano. Essa era stata commissionata dal marchese Annibale Cavriani nel 1846 per il primo altare a destra di Sant’Andrea. Don Enrico Tazzoli, che ne parla diffusamente ne « Il mondo illustrato» (1848), mette in evidenza l’abilità del pittore nel superare le difficoltà dovute alle dimensioni del dipinto (m 7 x 4) e alla sua collocazione, e osserva che «l’Ezzelino da solo è un capolavoro e gl’intelligenti lo dicono ad una voce degno di Paolo [ Veronese ] », sottolineando l’influenza della pittura veneta cinquecentesca, probabilmente accolta tramite l’Hayez che, a Milano fin dal 1820, l’Arrivabene poté aver avvicinato già dai tempi di Brera.
Un impianto scenografico monumentale, pur semplificato in senso purista, una fuga di colonne classiche inquadrate da un’arcata a tutt’altezza le cui spalle fungono da quinte, sottolinea la spazialità nello sfondo della Disputa dipinta per Sant’Egidio. In primo piano Gesù, tranquillo e sicuro, accenna con la destra al cielo dinanzi al trono del sommo sacerdote, che lo guarda con espressione attonita e pensosa. Gli astanti, sulla scorta delle due quinte architettoniche, sono riuniti in due gruppi, alle spalle del fanciullo e accanto al trono, in un’armoniosa disposizione. Vestono tutti, in base alla studiata ambientazione storica, secondo un presumibile costume antico. Nei volti, nella ricerca di dare a ciascuno una precisa connotazione psicologica ed espressiva, ritorna il ricorso alla pittura veneta, in questo caso allo stesso Tiziano.
Dalle pagine della «Gazzetta» del 20 gennaio 1866 Ariodante Codogni sottolinea nell’opera «il colorito calmo ed eloquente al tempo stesso».
Insieme alla Disputa, Fanny Magnaguti Revedin, a quanto trasmette sempre il Codogni, aveva commissionato all’Arrivabene un secondo dipinto, raffigurante Il doge Foscari, alle cui dolorose vicende si era ispirato per primo il Byron nella sua tragedia, seguito dall’Hayez nell’ambito della pittura e da Giuseppe Verdi in quello musicale: conservato tuttora nelle collezioni di Palazzo Ducale, stupisce al confronto con il primo per la diversità della concezione. Il pittore, ormai sessantenne, mostrando un’encomiabile duttilità di pensiero, in esso affronta il soggetto in maniera ben lontana da quella della Disputa. In un ambiente buio, ristretto e spoglio, appena variato da un tendaggio e dallo scorcio di una finestra fiancheggiata da una colonnina tortile, unico accenno ad una scenografia medievalista, il vecchio doge campeggia isolato, a mezza figura eppure imponente, appoggiandosi al bastone. Dalla finestra entra la luce che ne investe di lato il capo e il braccio destro, distruggendo i volumi a contrasto con l’ombra e caricando drammaticamente l’espressione, già disperata, del volto: una luce nuova e diversa, frutto di una scelta che indica come il pittore, padrone di una vasta cultura, al di là della produzione “di rappresentanza”, della quale la Disputa è pur sempre esempio, fosse interiormente proiettato verso ricerche aggiornate in senso europeo e, pur attingendo al passato (ultimo Caravaggio, Rembrandt), anticipatrici di nuove e più libere soluzioni.
La tela appare eseguita non per una committenza generica ed estranea, bensì colta e preparata, vicina al proprio sentire e pronta a recepirne e ad accoglierne favorevolmente le sperimentazioni, qual era, presumibilmente, Fanny Magnaguti Revedin.
Il pittore, scomparso a Firenze nel febbraio del 1896, è sepolto nel cimitero di San Miniato al Monte.

Maria Giustina Grassi

Documenti:
ASMn, D’Arco, Famiglie Mantovane, V, ms., ad vocem.
Sant’Egidio, AP, L. Rosso, mss.

Bibliografia essenziale:
G. MATTHIAE, Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, VI, Provincia di Mantova, La Libreria dello Stato, 1935, p. 40.
C. PERINA, in Mantova. Le arti, III, Mantova, Istituto Carlo d’Arco, 1965, pp. 644-645.
C. BOARI, Giulio Arrivabene, pittore dell’Ottocento, «Gazzetta di Mantova», 7 febbraio 1992, p. 18.
Voce Arrivabene Giulio Cesare in A.-A. SARTORI, Artisti a Mantova nei secoli XIX e XX, I, Mantova, Sartori, 1999, pp. 115-121.

Cfr. anche «La Reggia», anno XVI, n. 2 (60) , giugno 2007, pag. 2