Violenza e distanze... l'omicidio di Gabriele Sandri
13 Novembre 2007 - Raccogliamo e pubblichiamo nel seguito una libera riflessione su quanto accaduto a margine del mondo sportivo nell'ultimo week-end.
Accaduto... anzi tragicamente accaduto... e poi usato un po' da tutti per rinforzare e sostenere le consuete tesi pre-confezionate. Ognuno a proprio uso e consumo.
Alleghiamo volentieri anche questa riflessione/provocazione proveniente dal cosiddetto "mondo ultras", senza pretese di verità, come spunto proveniente da persone che vivono le pieghe di queste situazioni più profondamente di molti opinionisti, giornalisti, politici. Non è importante essere d'accordo su tutto... importante è mantenersi aperti e disponibili a conoscere, a riflettere, a capire, a dialogare. Soprattutto di fronte alle situazioni di conflitto.
Per piacere, lasciate pure i vostri commenti...
No, non lo sapete. Non lo sapete perché ieri pomeriggio e ieri sera è successo quello che è successo. Ed è proprio questo il motivo per cui succede e continuerà a succedere. Per la distanza che da trent’anni ci separa. Una giusta distanza. Tutti scrivete, tutti sapevate, tutti avete opinioni e soluzioni. Ma nessuno capisce che in realtà è la distanza che determina questo stato delle cose. Una distanza sempre uguale, da sempre, da Furlan a Sandri, da Colombi a Raciti. Ma quale caccia al poliziotto..ma quale l’agente voleva fermare la rissa..ma quale complotto al derby sospeso. Non è colpa di nessuno se in questo paese l’abitudine all’impunità è diventata assuefazione. E chi non si assuefa, per volontà, per mancanza di strumenti o per il rifiuto di strumenti, che ad altro non servono che a sopportare, fa quello che fa. Reagisce. Agisce. Sbaglia. Fa bene. Fa male. Ma fa. Sappiamo tutti che quell’agente non pagherà. Ci hanno abituato a questo. Ci hanno abituato nei secoli. Ma anche recentemente. E non pagherà perché la tensione che si è inevitabilmente alzata verrà usata(di fatto già lo è) per pareggiare il danno. Ma il danno culturale, la frattura..la distanza non è così che si ripara. Così si afferma. Si sentenzia. Si scolpisce dentro le persone, nella loro vita quotidiana, nei pensieri, nei gesti e nello strato più profondo dell’animo. La distanza. Giusta perché ancora una volta nessuno ammette, nessuno si dimette, nessuno è e sarà vero nella verità delle cose. Nessuno ha sparato come conseguenza di uno scontro tra ultras. A uccidere Raciti non è stato il diciassettenne. Il bambino morto al derby è stato creduto possibile da 70.000 persone perché 70.000 persone erano testimoni dalle 18 di quel pomeriggio della violenza dei reparti della finanza attorno allo stadio olimpico. La distanza la mettono i pomeriggi domenicali con le loro discussioni sull’accaduto affidate a Moggi e Belpietro. Condannano l’odio. Loro, che di odio sono maestri nelle rispettive vite professionali. La giusta distanza la mettevano gli opinionisti Biscardiani che se le davano peggio che in qualsiasi autogrill dell’A1 e che oggi scrivono editoriali condannando ieri pomeriggio e ieri sera. Pareggia. Pareggia il danno. Sandri è morto come un qualsiasi pischello Napoletano che senza casco sul motorino a 14 anni viene sparato alle spalle perché non si ferma ad un controllo di polizia. Sandri è morto come un qualsiasi operaio pagato in nero che casca da un ponteggio di otto metri. E’ morto in un modo assurdo e ingiusto. E’ la paura che questa morte resti tale a mandarti fuori di testa. Perché è POSSIBILE che resti tale. Possibilissimo in questa società civile dove quattro cazzotti o venti minuti, o un’ora di tafferugli contemplano spari in faccia mentre migliaia di famiglie rovinate da un crack finanziario possono andare aff... Loro. E non chi li ha ridotti così. Questo è quello in cui le giovani leve crescono e senza accorgersene incamerano. Questa è l’acqua che bevono. La carne che mangiano. I sogni che non sognano. Questo è quello in cui i più adulti cercano di galleggiare. E’ questo il nostro paese di cui si canta l’inno. In cui uno che si dopa in tv vince il pallone d’oro ed è chiamato a testimone dei valori dello sport.
La distanza ce la teniamo. A questo punto la pretendiamo. In lei ci riconosciamo, la difendiamo. Ci saranno sempre due verità nello stato delle cose. La nostra la sappiamo. La sapremo sempre e sempre la cavalcheremo. Senza sosta, senza tregua. Non curandoci delle "leggi del branco" con cui cercano di incasellarci in sondaggi e programmi tv o affibbiando stemmi di partito o appartenenze terroristiche. Che dicano, che scrivano, che reprimano. Biglie, sassi, punteruoli. Era un ragazzo buono e gentile. E se fosse stato cattivo? Faceva differenza? Doveva morire con tre, quattro botte invece che una? Una morte insegna sempre. Per questo il modo migliore di ricordare Gabriele è dicendogli grazie anche se non si conosceva. Grazie perché molti da ieri saranno persone migliori. Lontano adesso. Distanti. Giustamente distanti. E lui è qui dalla parte nostra.
E’ loro il disagio sociale. Soltanto loro regà.
asromaultras
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Giorgio e Cristiano Sandri
Intervista bella, vera a Giorgio e Cristiano Sandri, papà e fratello di Gabriele, pubblicata qualche giorno fa su "Il Romanista" a firma di Tonino Cagnucci.
La lettura porta via qualche minuto, ma credo ne valga la pena.
"La morte non è niente, io sono andato semplicemente nella stanza accanto. Io sono io, voi siete voi. Per voi, io sarò sempre ciò che sono stato. Datemi sempre il nome che mi avete dato, parlatemi come avete sempre fatto. Non usate un tono diverso, non assumete un’aria austera o triste. Continuate a ridere di ciò che ci ha fatto sempre ridere. Pregate, sorridete, pensate a me, che il mio nome sia pronunciato in casa come è sempre accaduto senza alcuna enfasi, senza una traccia d’ombra. Il senso della vita è sempre lo stesso. Il filo non si è interrotto. Perché dovrei essere fuori dai vostri pensieri semplicemente perché sono fuori dalla vostra vita? Io non sono lontano, sono solamente dall’altro lato della strada".
Dall’altro lato della strada c’è il negozio della famiglia Sandri. Il fratello Cristiano e il papà Giorgio raccontano di Gabriele e di un omicidio che nelle cronache è quasi dimenticato, confuso, più o meno strumentalizzato; che nelle aule giudiziarie deve ancora fare il suo corso e che non sia lungo, possibilmente corto. Tirano fuori quelle parole che dentro non finiscono mai. Non smettono. Insieme alle domande. Le risposte devono essere ancora date. Troppe. In ritardo. Inutili. Dovute. Si parla di Gabriele Sandri perché è giusto così, perché non si può dimenticare, perché glielo chiedi, perché altrimenti loro non lo farebbero tanto per farlo. Ovvio. Santo. C’è tanto silenzio e non c’è nemmeno sole alla Balduina ieri. Ieri è ancora come l’altro ieri. Dall’altra parte della strada Cristiano è diventato più grande dei suoi 33 anni, il papà entra un po’ più tardi prima di chiudere il mondo fuori. Lì, dall’altro lato della strada. Prima di tutto c’è sempre quella carreggiata, poi la notizia e come è stata raccontata.
- Cristiano Sandri quali sono le parole che ancora vanno dette.
- «Voglio dire quello che avevo in testa i primi giorni dopo l’omicidio di mio fratello, far presente meglio tutto quel bailamme mediatico e la strumentalizzazione che hanno fatto della morte di Gabriele: hanno parlato di violenza nel calcio, di decreti, di scontri, hanno richiamato il caso Raciti ma Gabriele con tutto questo non c’entra niente. Hanno ucciso un ragazzo e hanno provato a nasconderlo. Già dall’inizio».
- Per come è stata diffusa la notizia?
- «Per quello, perché non hanno fermato il campionato, per quello che è stato sostenuto in una conferenza stampa talebana del questore di Arezzo dove è stato impedito ai giornalisti di fare domande, per quello che si diceva ancora il giorno dopo in Parlamento: si sosteneva la tesi incredibile di un colpo sparato in aria, si prendeva tempo».
- Perché?
- «La discriminante è la divisa. Il fatto che ci fossero di mezzo le istituzioni in un delitto talmente grave, così grave, ha fatto sì di cercare fino alla fine di nasconderlo, di salvare il salvabile. Ma non c’era più niente da salvare. Hanno fatto emergere un’immagine distorta di quello che era accaduto, hanno parlato di terrorismo... una cosa simile è degna dei peggiori regimi dittatoriali. "Caso Sandri: arrestati i terroristi". In Italia è andata così, all’estero la BBC ha aperto: "Poliziotto uccide a sangue freddo un tifoso". Non è un titolo, né una forzatura, è stata la realtà».
- Adesso, da tempo, se ne parla poco.
- «Adesso c’è silenzio. Assordante. Eppure una notizia così andrebbe sviscerata da tutti i punti di vista, andava trattata dai vari Porta a porta e Matrix che, a parte l’immediatezza della notizia, a parte l’audience che facevano all’istante, non hanno detto più niente. Oblio».
- Quanto voluto?
- «O voluto o dettato dalla tirature di copie, dallo share. Ma com’è possibile che le armi si usino così? Come non parlarne? Come non sviscerare una notizia così grave? Così grande nella sua gravità?. Io ho ringraziato personalmente il testimone che ha raccontato di aver visto quel signore mettersi in posizione per prendere la mira perché altrimenti ho paura che ancora oggi staremmo a parlare di colpi sparati in aria. Ho detto che il silenzio è assordante perché lo abbiamo ascoltato in prima persona, soprattutto qualche giorno fa».
- Qualche giorno fa sono uscite delle perizie...
- «Già, parliamo di perizie e di accertamenti tecnici: questo signore, questo agente, ha avuto la voglia di sparare. Per quanto riguarda la tesi della deviazione della pallottola, l’unica che potrà sostenere la difesa, gli accertamenti che sono stati depositati riguardano gli elementi chimici rinvenuti sul proiettile per vedere appunto se ha toccato qualche colpo estraneo prima di uccidere Gabriele. Dalla relazione del consulente del pubblico ministero, quindi non il nostro, emerge che non ci sono elementi che possano indicare l’impatto con un corpo diverso. Noi questa relazione l’avevamo in mano da venti giorni, ma ci dicevamo: "Ora se occuperà la stampa, adesso arriverà la televisione", invece se non fossimo stati noi a fornire un’indicazione del genere non se ne sarebbe parlato per quel po’ che si è tornato a fare. Non se ne sarebbe parlato per niente».
- Fa aumentare la rabbia?
- «Sì, perché ti trovi impotente... Noi ci troviamo in difficoltà perché non vorremmo emergere come quelli che forniscono le informazioni alla stampa o che vanno per televisioni, però... Dopo due giorni avremmo potuto lanciare un’agenzia, ne abbiamo aspettati venti».
- Il presidente Napolitano nel suo messaggio di fine anno non ha ricordato Gabriele, ve l’aspettavate?
- «Il presidente Napolitano è stata la seconda persona dopo Veltroni a farsi vivo con noi, e si è fatto sentire veramente. Ci ha detto di essere rimasto sgomento per un evento del genere, ha parlato di gravità estrema. Il presidente non ha parlato di generica violenza negli stadi come hanno fatto certi media, cercando l’orribile equazione: è stato ucciso un poliziotto, poi un tifoso... »
- Invece...
- «Invece il calcio non c’entra niente. Che quei ragazzi andavano a vedere la Lazio a Milano si è saputo dopo. Chi ha sparato a 60 metri, con le auto che passavano, coi ragazzi che non avevano né sciarpe né bandiere, non sapeva fossero tifosi. E’ stato un atto di volontà di uno scellerato, di un delinquente, come ha avuto modo di dire il procuratore capo di Arezzo, non io».
- Ci sono sentimenti di rabbia nei confronti delle forze dell’ordine?
- «Noi non vogliamo generalizzare, capiamo bene che non tutti gli ambienti sono uguali, che ogni categoria ha i suoi interpreti. Proprio per questo chi ha sbagliato deve pagare. Abbiamo avuto la visita del capo della polizia, il dottor Manganelli, che ha ammesso la responsabilità di quell’appartenente alle forze dell’ordine»
- Avete amici poliziotti?
- «Sì, ne abbiamo anche come amici di famiglia».
- Come si sono posti?
- «Con difficoltà , non si spiegavano, non si spiegano come sia potuto accadere una cosa simile, un gesto così sconsiderato: un’arma un poliziotto la deve usare perché è in pericolo la vita propria o quella degli altri. Basta».
- Non sono state prese alcune misure cautelari nei confronti dell’agente Spaccarotella.
- «Questo signore è a piede libero. Tutti quanti si sono sbrigati a dire, giustificando col ritornello "l’inquinamento della prova, reiterazione del rato, pericolo di fuga... non ci sono gli estremi per..." Beh... Per l’inquinamento della prova non è stato detto nulla sul fatto che la zona in cui ha sparato il poliziotto non è stata posta sotto sequestro, dei due colpi che sono stati sparati, caso strano, è stato rinvenuto soltanto il bossolo del proiettile che secondo loro è stato sparato in aria, e non quello che invece ha raggiunto mio fratello. Per quanto riguarda la reiterazione del reato... uno che prende un’arma e spara con questa facilità si può immaginare anche che un giorno esca di casa e dia una bastonata in testa a qualcuno. Ecco, facciamolo qui il parallelismo con il caso del povero Raciti dove il minore indagato è stato raggiunto dalla custodia cautelare. E non c’entrava. "La legge è uguale per tutti", c’è scritto sui banchi delle aule di giustizia. Dovrebbe. E dovrebbe far riflettere».
- Il tempo che variabile è adesso?
- «Noi confidiamo nella celerità del procedimento, a febbraio verranno depositate le ultime relazioni sugli accertamenti disposti dal pubblico ministero, e da lì a poco attendiamo che il pm concluda le indagini e richieda il rinvio a giudizio del poliziotto. Noi immaginiamo in primavera, inizio estate. Non vorremmo che questo silenzio, quest’annacquamento sia l’ombrello sulla notizia perché così quando si arriverà al verdetto magari la posizione dello Spaccarotella venga in qualche modo affievolita».
- Quale verdetto sarebbe "affievolito"?
- «Per il reato di cui si è macchiato questo individuo il codice penale prevede 21 anni di carcere. Non un giorno di meno».
- Non un giorno di meno.
- «Non cerco e non cerchiamo vendetta. Ma giustizia giusta. Ci aspettiamo questo giudizio, non un colpo di spugna, né operazioni di ortopedia giuridica per alleggerire la posizione dell’agente che comunque, a mio avviso, sarà molto difficile effettuare».
- Spaccarotella, un giorno lo incontrereste?
- «No, e io non lo voglio incontrare per il resto della mia vita».
- Il perdono?
- «In questo momento non ci sono proprio i presupposti per perdonare una persona che senza criterio ha avuto la voglia di ammazzare».
- (Interviene il papà): «Una persona che qualche ora dopo aver commesso il fatto ha detto bugie e ha risposto al citofono a voi giornalisti: "Fatemi vivere tranquillo". Come si fa poche ore dopo quello che hai fatto a dire "fatemi vivere tranquillo". Come si fa?».
- Tra le tante cose dette, invece quella più importante, quella più bella, più giusta?
- «Ciò che ci ha detto Napolitano, il presidente della Repubblica: "Starò sempre al vostro fianco". E poi la gente. L’affetto della gente è più forte di ogni strategia comunicativa, più forte del silenzio. La vicenda ha colpito tutti quanti, perché tutti quanti hanno vissuto la possibilità di avere in quella macchina il proprio figlio, il proprio fratello, il proprio amico. Ci sosterranno anche in futuro per quello che sarà una vicenda che purtroppo durerà nel tempo dal punto di vista giudiziario. In questo, però, sono abbastanza tranquillo: ogni persona non si dimenticherà di questo fatto, ogni persona farà in modo di far trionfare la giustizia giusta. Perché è inaccettabile tutto. Gabriele Sandri dev’essere un momento di riflessione per tutta la società civile».
- Quello che ha ferito di più?
- (Interviene il papà): «Quando il ministro Amato ha detto che se si prendevano due caffé all’autogrill non sarebbe successo».
- «La gestione della notizia, non solo nell’immediato ma due-tre giorni dopo, il fatto che ancora adesso tutti i responsabili siano a loro posto. Magari al poliziotto hanno cambiato mansione per evitare di andare a sparare in giro, ma sta al suo posto; il questore di Arezzo che ci ha regalato quelle dichiarazioni mostruose che hanno ammazzato Gabriele una seconda volta, sta ancora lì, come se non fosse successo nulla. Non so se tutto questo sia stato voluto per non far esplodere la situazione, alzato un polverone apposta: la menzogna dei colpi in area, il no-stop al campionato quando il fatto è avvenuto alle 9.18 e c’era tutto il tempo. Tutto il tempo perché si scatenasse quello che è capitato».
- Si è lasciato scatenare?
- «Sì, per spostare l’attenzione lontano da quello che è successo. Tutti sapevano nessuno ha fatto nulla, tutti sapevano, nessuno ci ha detto niente. Gabriele aveva i documenti con sé, sapevano chi era, dove abitava e non ci hanno nemmeno chiamato».
- Come l’avete saputo?
- «A me ha chiamato un amico-collega avvisato da un altro ragazzo, era attorno a mezzogiorno. Dopo mille chiamate per rintracciare il numero di casa (avevo il cellulare spento perché scarico quel giorno) mi ha detto: "Vai ad Arezzo", ma non perché. Mi ha detto: "Però fatti accompagnare", e lì ho capito che era successo qualcosa di brutto. Poi ho chiamato un altro amico per farmi accompagnare ed è lui che mi ha raccontato: "Hai sentito quello che è successo ad Arezzo? E’ stato ucciso un tifoso della Lazio". Mentre andavo, la radio mi ha detto nome e cognome. Mio fratello».
- "Mio fratello". Gabriele Sandri, un ragazzo ucciso nella sua auto mentre andava a vedere la Lazio. "Mio fratello". Cristiano Sandri è un tifoso?
- «Da 33 anni, sono nato nel ’74, sono della Lazio. Mio padre è tifoso della Lazio, è lui che mi ha portato a vederla quand’ero piccolissimo. Me lo ricordo, era lo stadio di Pisa, una partita di Coppa Italia, avrò avuto sì e no 5 anni . Era sera, c’erano le luci. Più che altro ho immagini di quello stadio. Sono stato abbonato in curva dai miei 16 anni anni fino a i 30, poi, così come va per molti altri che hanno vissuto lo stadio, gli amici si sono spostati in tribuna e con loro anch’io. Mio fratello invece continuava ad andare »
- Sei più tornato allo stadio?
- «No, da quel giorno no».
- Hai intenzione di farlo?
- «Sì, perché ho quasi l’impressione che tornandoci fisicamente ci posso riportare anche mio fratello. Certo, quando mi sentirò di affrontare questo... A parte vedere una Curva, la Curva Nord intitolata a Gabriele Sandri fa...Fa».
- A Badia al Pino sei più tornato?
- «Quando abbiamo fatto i sopralluoghi per le perizie, ho visto non proprio il punto, ma dove hanno messo le sciarpe: i colori di tutte le squadre».
- Per certi versi veramente un monumento, non solo simbolico. La morte di Gabriele potrebbe...
- «Ho sentito tanti amici, tifosi della Lazio, tifosi della Roma, la morte di Gabriele ha dato una nuova consapevolezza di valori in tanti. La consapevolezza del valore della vita che mai può essere messo in discussione, né a rischio».
- La morte di Gabriele può far cambiare in meglio le cose del calcio e quindi anche quelle della vita?
- «Sì, è giusto parlare di sacrificio per mio fratello. Dalla sua morte non ho più sentito parlare di episodi di violenza negli stadi. Si deve parlare di sacrificio perché Gabriele possa venir preso sempre a simbolo per situazioni positive, in tutte, non solo nel calcio. Per questo ogni situazione a lui legata dovrà essere ricordata per l’alto valore della vita che rappresenta. Ogni iniziativa fatta sarà in tal senso: il valore stesso della vita».
- Per il prossimo derby s’era parlato di fare qualcosa, avete pensate voi a qualcosa?
- «Sì, il prossimo derby potrebbe essere un’occasione importante per dimostrare una presa di coscienza di tutti i tifosi, nella circostanza della Roma e della Lazio, ma non solo loro. Purtroppo quando si parla di tifosi lo si fa come ci si riferisse a una categoria di sottosviluppati e non di cittadini, di essere pensanti. Non so se io... sarebbe un’occasione importante. L’ultimo derby l’ho visto proprio con Gabriele ... Potrebbe essere un’occasione anche per me».
-(Interviene il padre): «Io vorrei andare in Curva Sud. Come facevi un tempo con gli amici, a giocare a scopetta prima. Io vorrei andare a vedere il derby in Curva Sud».
- Tuo fratello lo definiresti un ultrà?
- «Anche io, e non solo mio fratello, mi posso definire un ultras, anche mio padre si può definire un ultras, anche tu se lo sei per la Roma. La parola ultras è sentita solo con un’accezione negativa e invece non è così: è il modo più bello di seguire la squadra del cuore ovunque essa giochi, fattivamente, incitandola. Creando quelle amicizie che sono poi la cosa più bella nel seguire questa passione. La goliardia, i sorrisi, i viaggi, la spensieratezza con cui si va allo stadio, oltre che per vedere la partita della squadra del cuore, per lo stare con gli altri, con gli amici e con chi non conosci ma che abbraccerai. Per viaggiare, una giornata insieme, a pranzo come sarebbe capitato a Gabriele se non fosse stato fermato prima... Di andare a vivere. Ad essere così vitali come accade. E la Curva secondo me è una delle massime espressioni nel calcio, il sentimento più alto».
- I gruppi ultras della Roma hanno "scioperato" anche perché Gabriele Sandri il sistema se lo era dimenticato...
- «Il fatto che si muovano i tifosi o solo qualche giornalista sportivo deve far pensare. Loro, o chi nello stadio è rimasto in silenzio, chi nel mondo ha ricordato Gabriele, sono gli unici che hanno individuato il nocciolo del problema, ed è stato sicuramente un modo civile. Si parla sempre e solo in negativo dei tifosi, degli ultras, poi quando fanno iniziative, o vengono dimenticate o strumentalizzate per coglierci il lato che non va bene».
- Una volta si cantava 10-100-1000 Paparelli, adesso si cantano i cori per Gabriele Sandri.
- «Ecco che significa Gabriele. E’ un’evoluzione culturale che dovrebbe parlare a molti, che aiuta a far capire certi fenomeni, perché per me quello della violenza negli stadi può essere risolto. La presa di posizione dei tifosi è importante, i tifosi sono persone che hanno una loro intelligenza, che non si fanno condizionare, che non mandano il cervello all’ammasso, ma che vengono dipinti come massa indistinta».
- Perché?
- «Una forma di controllo. Quando vieni toccato da un fatto del genere pensi a tutto quanto, ti poni tante domande e cerchi di capire per quale motivo si voglia responsabilizzare oltremodo il mondo del calcio e dei tifosi su questioni che dovrebbero essere affrontate diversamente dalla società e dalle istituzioni, e non unicamente con la repressione, con il pugno duro. Dove c’è la repressione c’è la reazione, guarda i rapporti tra padre e figlio: non puoi pensare a punire se non pensi prima di approfondire il rapporto e i suoi motivi».
- Se un giorno avessi dei figli...
- «Li manderei in curva. Io mi ricordo quando andavo in curva quattro ore prima, l’emozione che mi dava il fatto di poter cantare per la mia squadra, poterla sostenere. È una cosa bellissima perché ti senti partecipe di una comunità autentica, semplice ma forte. Forse veramente lo stadio, e la curva in particolare, è l’unico posto in cui certi ostacoli, certe barriere cadono, il posto più trasversale che ci sia: nessuna differenza di ceto, di istruzione, di professione, di religione. Proprio per questo, visto il modo così genuino e del tutto spontaneo di vivere il calcio e in definitiva la vita, io posso dire che se avrò dei figli sicuramente li manderò in curva. Sempre se lo vorranno».
- Sempre laziali eh?
- «Po’ esse solo quello».
- Quello che conta è un altro. E’ quel nome, Gabriele Sandri, e quel monumento di sciarpe all’autogrill di Badia al Pino...
- «Una Fondazione. Stiamo studiando e lavorando per far nascere una Fondazione. A breve ci incontreremo col sindaco e col suo staff per poter organizzare una situazione effettiva e concreta, una Fondazione perché il nome di Gabriele possa essere associato a iniziative benefiche e di costruzione sociale, che comunque possano portare a qualcosa del positivo, possano aiutare chi ne ha bisogno. Si tratta di un’iniziativa impegnativa che dovrà essere strutturata in modo minuzioso e valido».
- A Gabriele come piacerebbe essere ricordato?
- «Gabriele era il prototipo del ragazzo gioioso, che guardava alla vita unicamente dal lato positivo, quindi sicuramente con un sorriso. Vorrebbe essere ricordato col sorriso che lo contraddistingueva. E questo, come famiglia, cerchiamo di riproporcelo sempre, ogni volta. E come puoi immaginare non è facile. Perché la sua mancanza è talmente tanto grande e profonda che a volte sorridere fa tanto male».
- Ti è capitato di sognarlo?
- «Ancora no, un sogno così bello ancora non sono riuscito a farlo».
EMOZIONANTE...
Queste righe mi hanno emozionato perchè nonostante io legga molto sul tema del tifo, degli ultras e di tutto quanto succede intorno a questo contraddittorio mondo del calcio, è la prima volta che leggo un discorso che sento profondamente mio. E' da diverso tempo che ci rifletto su e mi convince veramente poco il modo di fare informazione su questi temi. Ho avuto la fortuna in questi ultimi mesi di potermi impegnare concretamente attraverso il mio lavoro per tentare di dare un piccolo contributo a vedere le cose da una prospettiva diversa. Sto seguendo un progetto che andrà nelle scuole per aiutare i ragazzi a riflettere su questi temi e a formarsi un'idea il più possibile libera dagli stereotipi proposti dai mass media sul concetto di ultras e sulla violenza negli stadi. Sul fatto che dietro una massa indistinta ci sono persone in grado di fare la differenza con la loro intelligenza, affinchè andare allo stadio, essere ultras possa davvero essere quello che tanto bene ha detto Cristiano Sandri e che è nel cuore di molti, e non sinonimo di becera violenza.
Questa intervista esce dalle logiche dei titoloni roboanti, esce dal coro, per parlare al cuore con le parole di gente che ha sofferto sulla propria pelle. Ecco perchè si conosce a fatica, non entra nei canali della grande diffusione, forse a Roma qualcuno l'ha letta visto che è apparsa su un giornale romano, più che altro viene diffusa da siti di tifosi di tutta Italia...
Ecco perchè dopo averla letta ho deciso che scriverò a Cristiano Sandri per chiedergli se vorrà intervenire con la sua testimonianza al convegno che faremo a maggio alla fine del progetto. Gli scriverò certo a nome del Comune che è l'istituzione che coordina l'iniziativa, ma spero di riuscire a comunicargli che sotto la veste istituzionale ci sono persone che credono fortemente che qualcosa possa cambiare attraverso la prevenzione, il dialogo, il confronto. ...Che ci sono persone che per passione, per vita vissuta credono che ci si possa divertire seguendo la propria squadra senza rischiare di andare a morire. ...Che ci sono persone che lavorano tutti i giorni per tenere vivo il ricordo di quanto è accaduto affinchè non accada più... perchè il silenzio sia meno assordante!
NON PERDIAMO UN'ALTRA OCCASIONE
qualche domanda
Ho letto l'intervento di un ultrà e il commento di Cristina. Questo mi sembra chiaro e in ampia parte lo condivido. Vorrei però ora partecipare alcune domande, che sono il mio modo di affrontare ciò che ho visto , cioè la mia reazione a ciò che qualcuno sceglie di farti vedere: forse non è tutto, ma qualcosa si è proprio visto!. A parte il povero Gabriele (morto o meglio ucciso, a proposito del quale spero che la magistratura svolga un'indagine seria, come deve accadere in uno stato di diritto per ogni cittadino; pertanto non faccio un mio processo, né mi sostituisco ai giudici, pur condannando ogni uccisione che non corrisponda alla necessità di una immediata difesa da aggressione gravissima), le mie domande si concentrano sulle bande violente che sono presenti e attive nelle città, nei dintorni dello stadio, dentro lo stadio. Non parlo di tifosi, perché credo che le vicende di cui trattiamo c'entrino poco, anzi nulla col tifo sportivo (ma non ho l'impressione che il calcio - e non solo - abbia perso un'occasione d'oro per ripulirsi al proprio interno...). Ho amici di antica data tifosissimi e spassosissimi, che non perdono occaione per stuzzicare, ridere e far divertire nei modi più inverosimili e con gli argomenti più strampalati e improbabili. Non parlo neppure di giovani, perché ho visto fior di ventenni, trentenni e quarantenni. Parlo dunque di uomini (nb: con somma soddisfazione mi pare di aver notato nessuna donna!). Chi sono questi uomini? Che cosa vogliono? Che cosa sperano? Quale rabbia immensa portano nell'animo? Con chi se la prendono, spaccando a destra e a sinistra? Quale senso di giustizia c'è nel loro comportamento? Riescono a vedere degli uomini in carne ed ossa davanti e intorno a sé, o vedono un feticcio? Donde viene e dove conduce questa mole immensa di odio? E di odio indiscriminato, a geometria variabile, che prende di mira quasi tutto, non un eventuale simgolo per ipotesi colpevole di un grave delitto, ma gruppi sociali o categorie di persone, migliaia e migliaia di uomini, le loro case, le loro cose? Come parlare di loro? Come parlare a loro e alla loro rabbia, distruttiva e autodistruttiva? Si sentono forse emarginati? E da chi? Si sentono inascoltati ? E da chi? Come parlare a questa umanità dolente e che trasmette tanta, tantissima infelicità? Son pur sempre uomini, uomini come noi, uomini come me... Ciao a chiunque voglia leggere e/o intervenire. Nel frattempo da prete di campagna non cesserò di colloquiare con Dio delle tristi vicende di tanti suoi figli.
vi precedo in Galilea
Caro don Alberto, percepisco davvero molto forte e centrale la provocazione di fondo che scaturisce dalle tue domande. Tanto forte e centrale che credo ci imponga, come cristiani, di essere sondata e pregata con grande commozione e profondità.
Ecco perchè mi permetto di allegare uno spunto di riflessione non mio, ma tratto da don Ciotti, un fratello sacerdote che ho avuto la fortuna di incontrare personalmente in diverse occasioni e che, non meno di tanti altri fratelli, ha contribuito a segnare e formare in maniera profonda la crescita della mia personale spiritualità cristiana.
Credo che anche in questo caso le sue parole risultino illuminanti per poter comprendere l'essenza del nostro essere cristiani rispetto alle tante periferie della civiltà che ci circonda (e ci pervade).
Gettando così un po' di limpida luce su alcune delle domande poste.
Don Ciotti :”I nuovi ghetti sono un tradimento sociale”
Testo pubblicato su Avvenire il 20/09/2006
Abele e Gesù: condotti fuori dalle mura della città e uccisi. Da sempre la diversità è vissuta come provocazione imbarazzante, da aggredire. E da sempre le periferie sono luogo di condanna ma anche, paradossalmente, di salvezza.
Condanna perché è in periferia che vengono rimosse e schiacciate diversità e fragilità. Salvezza perché il rinnovamento sociale e individuale parte da lì. Tanto più abiteremo le periferie, tanto più saremo in grado di rinnovare il centro.
Sono le nostre stesse vite, del resto, a insegnarcelo. Spesso sono proprio le situazioni difficili, quelle in cui ci sentiamo soli, smarriti, segnati dalla fatica, ad aprirci gli occhi, renderci più attenti e umani. Ritroviamo il centro di noi stessi solo trovando il coraggio di abitare la nostra periferia, accettandola come parte di noi.
Per questo la periferia non è solo un luogo geografico. C’è periferia ogni volta che viene meno l’attenzione, l’accoglienza, la possibilità d’incontro. Ogni volta che non viene riconosciuta la centralità della persona.
Le grandi migrazioni hanno ridisegnato la composizione e il paesaggio delle nostre città, colorandole di volti e di storie che vengono da lontano, portate dalla povertà, dalle guerre, da un modello economico che ha reso intollerabile la distanza tra i pochi che hanno troppo e i tantissimi che non hanno nulla.
Eppure la città è spesso soltanto un contenitore, uno spazio di coabitazione ma non d’incontro, dove i centri urbani sono deserti affettivi non meno delle periferie, specchi di una periferia dell’anima dove regna la freddezza e l’indifferenza. E dove anche le forme di accoglienza e di attenzione non riescono a trasformare la solidarietà in quella corresponsabilità che sta alla base di una vera convivenza.
Le recenti vicende delle periferie francesi sono state un campanello d’allarme: se manca il riconoscimento sociale, se l’integrazione è solo superficiale, se il modello sociale ed economico provoca frustrazione, disoccupazione, precarietà, anche le periferie più attrezzate finiscono per esplodere.
Sono necessarie politiche che rimettano al centro la dignità della persona, i suoi diritti e bisogni fondamentali, e che agiscano sulle cause strutturali di un urbanizzazione sempre più frenetica e disperata.
Un recente rapporto dell’Onu lancia a riguardo dati inquietanti. Ogni giorno 180 mila persone emigrano nelle città in cerca di una casa, tanto che nel 2007, per la prima volta, la popolazione dei centri urbani supererà quella rurale. Cinquant’anni fa erano solo due le città con più di 10 milioni di abitanti: ora sono quaranta. Lo scenario è angosciante, perché chi emigra nelle città è mosso dalla speranza di un futuro migliore, mentre ad aspettarlo sono quasi sempre gli inferni delle baraccopoli e delle bidonville, nelle quali sono costrette a vivere già più di un miliardo di persone.
E’ per questo che una politica che abbia a cuore i destini dell’umanità non può prescindere dal problema delle periferie.
Ma per farlo deve sapere trasformare ancora una volta quei non-luoghi di condanna in luoghi di salvezza, architravi di una convivenza fondata sul rispetto dei diritti e della dignità di ciascuno. Abbandonando l’indifferenza di Pilato, uomo di Centro e di Palazzo, e facendo proprio lo sguardo profetico di Gesù di Nazareth, ribelle non-violento e uomo delle periferie.
Gesù che risorto, non dimentichiamolo, annunciò quel «vi precedo in Galilea» che indicava in quell’estremo lembo di terra quella periferia come l’inizio di una nuova speranza e di una nuova giustizia.
nella mia ignoranza tento di rispondere
innanzitutto vorrei cominciare col dire che i tifosi non sono tutti uguali,purtroppo o per fortuna. il tifoso è "un acceso sostenitore di una squadra o di un atleta" e tifare significa "parteggiare per una squadra sportiva o per un atleta, specialmente sosotenendoli e incitandoli a gran voce durante le gare in cui sono impegnati"(fonte: Dizionario della Lingua Italiana, G.Devoto e G.C.Oli). ebbene, io in queste difinizioni di parole utilizzate spesso sui giornali, non trovo alcun vocabolo che richiami alla violenza. Dunque: è giusto chiamare tifosi gli uomini che usano il calcio per combinare disastri e talvolta, purtroppo, spezzare giovani vite? La risposta è no: quelli sono delinquenti che hanno interpretato male il valore dello sport.
Detto questo, perchè ci tenevo a dimostrarlo, provo a rispondere alle domande poste da don Alberto, poichè vivo dall'interno l'esperienza del tifo (vedi sopra).
i "casinisti" sono uomini che trovano nello stadio la valvola di sfogo dei problemi personali, scaricando la rabbia che portano dentro sugli altri. la competizione tra le squadre e i tifosi (che nei limiti oserei definire "sana"), viene dalle minoranza violente espansa fino a esplodere e a portare agli scontri che noi conosciamo. L'uomo carico di rabbia, prima o poi esplode. E trova nella competizione un valido motivo per scaricare le sue tensioni. insomma: è come se con una piccola fiammella (che rappresenta la sana e limitata competizione) ci avviciniamo a un barile (l'uomo) colmo di benzina(rabbia). L'esplosione è inevitabile. Il bello è che questa esplosione non resta circoscritta: se accanto c'è un altro barile, esploderà pure quello, anche se magari contenente meno benzina del precedente.
allora nasce un problema: bisogna spegnere la "fiammella" e appiattire lo sport (in questo caso il calcio) a una soap opera o spostare i barili pieni di benzina e porli in un luogo più sicuro?
io voterei la seconda ipotesi, e, uscendo dalla metafora, adottare misure più restrittive per chi approfitta del tifo per sfogarsi.
prendo l'esempio inglese: dopo i brutti episodi che conosciamo tutti (Heysel, ad esempio), l'Inghilterra ha adottato misure estremamente restrittive sui tifosi, tanto che negli stadi in Gran Bretagna non esistono nemmeno le barriere che dividono i tifosi dal campo, sostituite dalla paura della conseguenza nel caso di invasione. basta guardare la partita Scozia-Italia (finita 1-2) dove i tifosi scozzesi non hanno accennato a nessuna minaccia nei confronti degli italiani, che avevano appena spento le agognate speranze degli scozzesi di qualificarsi agli Europei del2008. Perchè questo? Perchè in Italia non succede? lascio questa riflessione aperta per ulteriori commenti.
passando al fatto dell'omicidio Sandri, io mi trovo d'accordo con chi pensa che chi sbaglia debba pagare, e chi sbaglia come quell'agente di polizia debba pagare con gli interessi. Ormai casinisti e poliziotti sono entrati in un conflitto muro contro muro, che sembra irrisolvibile,perchè sia l'una che l'altra parte contribuisce nel fomentare l'odio, se così si può chiamare, reciproco. Ma se addirittura L'I.R.A. ha abbandonato le armi in favore di una discussione pacifica, anche la riconciliazione in Italia fra le due parti è possibile. Basta chiarire i ruoli.
altri spunti...
Ops, mi è scappata la mano... mi scuso con voi...
Adesso basta!
Innanzitutto colgo l'occasione per salutare tutti gli Amici che hanno finora scritto in questa sezione e quelli che lo faranno prossimamente ed approfitto di questo importante spazio concesso dal nostro sito per esprimere la mia opinione in merito ai tristissimi eventi accaduti. Chi mi conosce sa che sono un "tifoso accanito" della mia squadra del cuore e quando scrivo "tifoso accanito" mi riferisco ad un modo viscerale e totale di vivere la passione per il calcio e per i colori della mia squadra, passione che con una certa sorpresa ho trovato altrettanto viva in persone di diversa età, professione ed addirittura vocazione, come per esempio il missionario Padre Bossi, pochi mesi fa liberato dopo un rapimento subito nelle Filippine il quale ha raccontato di ricevere tramite il governo italiano e chi si adoperava per la sua liberazione domande provenienti dai familiari riguardanti il Milan, domande che gli venivano poste per accertarsi che fosse ancora vivo, domande alle quali solamente un vero tifoso avrebbe potuto rispondere.
Parto da questo aneddoto per far capire come il calcio sia ormai entrato radicalmente a far parte della nostra società e dei nostri interessi e purtroppo per questo sia a mio avviso usato da vere e proprie "associazioni a delinquere" per poter svolgere le loro azioni criminali protetti da una sciarpa con i colori di una squadra calcistica, al fine di trovare un'impunità ed anche una visibilità mediatica che in ogni altro contesto sarebbe impossibile ottenere.
Personalmente credo sia opportuna un'importante forma repressiva nei confronti di chi si nasconde dietro lo sport per compiere atti di delinquenza e credo sia altrettanto opportuno che i mezzi di informazione e le persone di buon senso smettano di cercare giustificazioni di qualsiasi tipo per chi, violando prima le più elementari norme di comportamento civile e poi rendendosi protagoniste in maniera violenta di azioni penalmente perseguibili non meritano di essere considerati interlocutori. Mi sento in dovere di commentare il significato di alcuni cori, sicuramente condannabili e che invece ottengono l'effetto di inculcare un modo di pensare sbagliato che porta ad una opposizione nei confronti di ogni regola, istituzione e autorità. I cori "e non ci avrete mai, come volete voi, e ultras liberi, e ultras liberi..." e "non ne possiamo più delle divise blu..." o ogni altro coro contro chi in quel momento, retribuito da un basso stipendio, rischia la vita per garantire l'ordine pubblico, sono cori cantati contro la polizia e le istituzioni che rappresentano. Sono cori fatti da chi si pone al di fuori della legalità e che per questo non può essere interlocutore ma solo oggetto di provvedimenti atti a far cessare queste situazioni per poi costruire qualcosa di nuovo, qualcosa come uno stadio dove una mamma ed un papà possano portare il loro bambino allo stadio senza il terrore che possa accadere l'irreparabile.
Abbiamo l'esempio di altre nazioni come l'Inghilterra dove la situazione era anche peggiore rispetto alla nostra ma con provvedimenti assolutamente severi si è arrivati ad una realtà dove lo stadio è un posto assolutamente sicuro per chiunque.
Le leggi vanno fatte e soprattutto vanno fatte rispettare e personalmente sono contento e grato che esista la pay-tv che mi permette ogni settimana di seguire la mia squadra del cuore senza la paura che mi possa arrivare in testa un WC, una sprangata od un motorino e mi permette anche di non seguire la partita accanto a persone che per 90 minuti fumano erba incuranti del fastidio e del danno che recano a se stessi ed al vicino di posto.
Questa mia riflessione è fatta con l'esperienza di abbonamenti e numerose partite viste in un importante stadio come quello di S.Siro. Naturalmente la soluzione non si ridurrebbe ad una semplice repressione ma anche ad una privatizzazione degli stadi con la responsabilità di ciò che accade all'interno degli stessi da parte delle società calcistiche, come accade nella già citata Inghilterra, ma qui si entrerebbe in un discorso molto più vasto fatto di politica, privatizzazioni e amministrazioni comunali.
Avrei molte cose da scrivere ancora ma non voglio abusare della pazienza di chi avrà la gentilezza di leggere queste mie righe, voglio però inserire qui di seguito un lungo articolo dell'altro giorno preso dal sito di Repubblica. Questo articolo è l'intervista al capo della curva dell'Atalanta e racconta chiaramente come viene vissuta la cosiddetta "realtà Ultras", purtroppo credo si commenti da solo:
'Vi spiego il dio ultrà': Viaggio tra i violenti del calcio
11:05 del 19 novembre
"L'avversario è un nemico, vogliamo picchiarlo per fargli capire chi comanda".
"Dopo la tragedia di Arezzo si doveva bloccare tutto. Ma il tombino in curva è stato un errore".
"Lo scontro è la nostra droga. Tutti gli ultrà cercano lo scontro. È una cosa che hai dentro, che ti sale su mano a mano che si avvicina la partita. Quando devi farti rispettare in una città che non è la tua. Oppure quando arrivano gli avversari in trasferta, ché alle dieci sei già lì, sul piazzale dello stadio. È la difesa del tuo territorio. La voglia di picchiarsi col nemico. Fargli capire che qui comandi tu. Ma - dice "Bocia", il capo, uno dei sacerdoti del nuovo rito curvaiolo - lo scontro non nasce dalla delinquenza; nasce dalla passione, dal cuore. E deve essere leale, non un'infamata. Se non sei un ultrà questa cosa non la capirai mai. Anzi, ti fa schifo. Noi invece cerchiamo di tramandarla, assieme ai nostri valori, condivisibili o no. Questa è la vita che abbiamo scelto. Così vivremo finché esisteremo".
Per entrare al "Covo", come lo chiamano loro, i monoteisti del tifo, devi salire una scala di ferro arrampicata sulla parete laterale di una concessionaria di automobili. Superi una porta di vetro tappezzata di adesivi nerazzurri e ecco un muro umano, una massa compatta di ragazzi in jeans e giubbotto radunati come militari in uno stanzone arredato con murales e bandiere e sciarpe e grandi foto che raccontano la storia del tifo organizzato atalantino. Di colpo sei inghiottito da un silenzio irreale.
Un silenzio rotto solo dalle parole del capo. Il "Bocia", 35 anni, faccia e modi da Braveheart di provincia, giardiniere, leader della Curva Nord dell'Atalanta. Al "Covo", una specie di tempio pagano, il pasdaran da stadio è indottrinato sui temi portanti della sua fede, della sua esistenza al limite. Si parla di "presenza" da fare, di orari di treni e pullman, di collette, di striscioni, di processi penali e mediatici, di droghe "buone" e droghe "non buone", di tifo organizzato, di "odiosa repressione", di "giornalisti infami". Tutti ascoltano muti. Odore denso di fumo. Operai. Universitari figli di papà. Impiegati. Insospettabili professionisti. Disoccupati e gente che sgobba 15 ore al giorno, e se c'è da seguire la squadra a Palermo, il lunedì si torna in fabbrica dopo avere attraversato l'Italia.
C'è anche qualche donna, una porta capelli viola fino alle spalle. Bocia sta seduto al centro. Intorno, il direttivo: una decina di persone, i luogotenenti. Tutte le curve hanno un capo e un direttivo. Eletti senza primarie. E migliaia di soldati semplici. Divisi in sezioni ognuna con un compito da portare avanti: coreografie, scontri, organizzazione dei viaggi, rapporti (solitamente complicati) con Digos e questura. Un sistema gerarchico, chiuso a riccio, impermeabile all'esterno. "Allora, adesso sotto con la trasferta...": Bocia istruisce decine di ragazzi su come affrontare un esodo "caldo". Quando l'Atalanta gioca fuori casa i suoi ultrà vengono quasi sempre accolti in modo non esattamente ospitale; loro sanno che è così, in fondo, spesso, non chiedono di meglio. "Occhi aperti sono i consigli per l'uso. "Perché quando ti scontri devi avere la mentalità giusta. Se un avversario cade a terra non devi infierire. Devi rispettarlo. E niente coltelli né bombe. Il problema è che oggi la violenza ha raggiunto livelli altissimi. Non sai mai chi incontri. Cosa ti può capitare. Ci sono gruppi che girano con la pistola in tasca... ".
Già, la pistola. E Gabriele Sandri, e l'autogrill, e il poliziotto, e la rivolta delle banlieue da stadio: parli con gli adepti del tifo e davanti ti scorrono le immagini dell'ultima domenica bestiale. Gli ultrà bergamaschi che assieme ai colleghi milanisti assaltano la polizia fuori dallo stadio (a Bergamo si giocava Atalanta-Milan); che esercitano il loro potere esecutivo imponendo lo stop alla partita. Il come si sa: sfondando con un tombino la vetrata che separa la curva dal terreno di gioco. "C'era tanta confusione. Forse il tombino è stato un errore - ammette Bocia - ma bloccare tutto era un dovere morale: e noi l'abbiamo fatto, anche se con modi discutibili. Il calcio doveva fermarsi per Sandri, come si è fermato per Raciti".
È un mondo aspro e selvaggio quello degli ultrà. Per conoscerlo da dentro, per comprenderne le logiche informi, l'anarchia, le derive incendiarie, bisogna andare a vedere da vicino: non farsi impressionare dalla ruvidità di certe facce, di certe scene. E poi i toni, le abitudini cameratesche e carbonaresche che scandiscono la preparazione della "partita". Quello che a loro pare normale, a te sembra "fuori". È possibile impacchettare dentro la stessa bandiera le sassaiola contro un treno e le collette per le scuole del Ruanda? Le sprangate per strada e la raccolta fondi per la distrofia muscolare? E viaggiare per quindici ore su un treno tipo carro bestiame, presi in consegna da una teoria di poliziotti armati, scortati in mezzo a una città a bordo di pullman coi finestrini sbarrati con reti di ferro e infine, se va bene, tenuti dentro lo stadio per due ore finita la partita e rispediti a casa magari dopo aver preso una pietra in testa o una messe di manganellate? Saranno 500 o 600 qui al "Covo". Due o tre riunioni la settimana. Un mini esercito in servizio permanente sui gradoni di una curva infuocata, temuta, oltranzista, rispettata. Colpita come molte altre da una pioggia di "Daspo", il provvedimento che vieta ai supporter violenti beccati in flagrante di assistere a manifestazioni sportive per un periodo che va da 1 a 3 anni.
Per gli incidenti dell'11 novembre sono arrivati sette arresti. Il presidente dell'Atalanta Ivan Ruggeri ha puntato il dito contro la curva: "Sono delinq.uenti che non voglio più vedere allo stadio". Il comunicato era firmato anche dai giocatori, che però tre giorni dopo, tra qualche imbarazzo, hanno tirato il freno: "Isoliamo i violenti, ma non criminalizziamo la Curva Nord che ci ha dato e ci dà tanto". "Era il minimo che potevano fare...", dice ora un po' sardonico Bocia. "Adesso comunque staremo fermi per un po', dobbiamo fare quadrato, ma la nostra mentalità non cambia". Il clima che si respira piacerebbe a Chuck Palahniuk, l'autore di Fight club e anche all'hooligan-scrittore inglese Cass Pennant, ma qui al Covo, almeno qui, non ci si prende a pugni né a calci. Semmai capita che pugni e calci si programmano o si commentano. "Oltre alla fede per la squadra, la cosa più importante per noi è il rispetto - spiega il leader della Nord - E rispetto vuol dire anche scontrarsi. Anzi, è la base". È la prima volta che un capo ultrà ci mette la faccia e riconosce che "sì, noi i casini ce li cerchiamo anche quando non ci sono. Romanisti, viola, granata, genoani: con tutte queste tifoserie vogliamo picchiarci. È così, non c'è niente da fare". Lui è uno di quelli che allo stadio non può andare. Il prossimo è il suo dodicesimo campionato da diffidato. "A fasi alterne, ovviamente". La domenica gioca a calcio: Bonate Sopra, prima categoria. E anche qui qualche guaio se lo tira addosso. Come il 9 settembre scorso a Cologno Monzese. Un centinaio di ultrà dell'Inter gli preparano un agguato. Sono lì per vendicare un assalto al loro treno diretto a Bergamo, campionato 2006-2007. Contro il pullman del Bonate partono sassi e bottiglie. A bordo ci sono anche donne e bambini. Ma soprattutto c'è lui, Galimberti. "Il nostro mondo è fatto anche di queste cose. Certe volte dimostri la tua superiorità cantando più forte degli altri. O presentandoti in gran numero in una trasferta. Se facciamo mille chilometri e andiamo a Napoli in 500 magari ci tirano addosso le bombe carta, però come nemici sanno che siamo rispettati".
La curva atalantina un tempo era "rossa". Negli anni '80 è stata filoleghista. Oggi è rigorosamente "apolitica". Seimila ultrà. Mille lo zoccolo duro, quello che c'è ovunque e comunque. Che vive per la squadra, per il tifo. Come Danilo, 41 anni, operaio. Uno dei colonnelli. "La "mentalità ultras" sta scomparendo - dice - Ci sono curve che hanno fatto la storia di questo movimento che non hanno più codici di comportamento. Si sono sputtanate per gli affari commerciali, si sparano per un pugno di biglietti omaggio, mandano avanti i ragazzini coi coltelli. Questo è vergognoso".
I seguaci della Dea (la dea Atalanta), come amano definirsi, hanno pochi rapporti di amicizia (Ternana, Cosenza, Eintracht Francoforte, Cavese) e moltissime rivalità. Praticamente con tutte le tifoserie. Il momento sociale per eccellenza è la Festa della Dea, l'omaggio al "totem" Atalanta. "Ogni estate facciamo 10 mila persone a sera. Vengono i giocatori, quelli di oggi e quelli di ieri. Si beve birra, si canta in piedi sui tavoli", spiega Daniele Belotti, 39 anni di cui 33 in curva, consigliere comunale e regionale leghista ("ma la politica non c'entra"). Ha scritto un libro, Belotti, "Atalanta folle amore nostro", che ripercorre 35 anni di tifo. "La Nord un tempo era considerata un covo di violenti e emarginati. Oggi coinvolge nelle sue iniziative decine di migliaia di bergamaschi. Gente che prima ci guardava con distacco e un certo timore".
"Bocia" Galimberti ascolta, annuisce, si tormenta la barba. Poi stappa una birra. Dice che in testa ha un pensiero fisso: i napoletani. "Se il Viminale non vieta la trasferta, li aspetto a Bergamo. Noi da loro andremo, sicuro, sempre che lo Stato ce lo permetta". Lui non potrà esserci, ma saprà tutto dal primo all'ultimo minuto. Perché la curva ha tante radio. Che messe assieme formano una specie di grande ugola indisciplinata. Bocia si alza in piedi, porge la Ceres a Daniele e, scandendo il ritmo con le mani aperte a tamburo, lancia un coro che fa rimbombare il Covo: "A-ta-lan-ta olè... ". Subito dopo, a mo' di litania liturgica, parte un fragoroso "Bergamo, Bergamo...". Una città da difendere, cento città dove "farsi rispettare".
dialogo?
Grazie MarcoB per il tuo contributo ricco, competente e in larga parte condivisibile...
Io qui mi limito nuovamente però a tener sempre ben NITIDA la DISTINZIONE obiettiva tra ultras (decine di migliaia) e delinquenti comuni (decine/centinaia). Per questi ultimi, hai perfettamente ragione, è una questione di ordine pubblico e che pertanto esula da questa specifica sezione di Forum. Potremmo aprirne un'altra ...
Ciò premesso, la comprensione dei "valori ultras" (non necessariamente da condividere!) è però assolutamente necessaria per poter aprire un dialogo costruttivo e POSSIBILE con decine di migliaia di persone. Sempre ovviamente che il dialogo interessi a qualcuno...
capisco ma il punto...
Capisco, ma il punto focale a mio modesto avviso non è cercare il dialogo con il "fenomeno ultras" in quanto tale perchè esso non ha in se e non porta ne a chi lo compone ne a chi lo subisce nulla di buono. Per il dialogo che ritengo comunque necessario e cristianamente auspicabile bisognerebbe invece, togliendo completamente l'attenzione dal contesto di sport e tifo, focalizzare l'attenzione su problemi sociali e politici non avendo come interlocutore nessuna massa identificabile o riconducibile a determinati "valori ultras" ma puntando al dialogo con il singolo individuo che spogliato e liberato dal branco che lo circonda può rivelare tesori preziosi e concorrere ad un vero confronto civile. Di sicuro i modi per ottenere questi risultati non sono facili, ma lo sciogliere, il non riconoscere e quindi non accreditare determinati gruppi credo sia il primo ed indispensabile passo da compiere
un pensiero
Io credo che ci sia bisogno di una radicale rieducazione. Una rieducazione al rispetto. Io non credo che il fenomeno degli scalmanati appartenga solo al calcio: lì è più evidente perchè la violenza, essendo totalmente in contrasto con il calcio e il tifo, fa risaltare di più il fatto. Per intenderci: è come costruire un grattacielo sull'Himalaya. La notizia desta scalpore non perchè si è costruito un grattacielo (cosa normale in sè) ma perchè è stato costruito in un posto non usuale. Con questo intendevo far passare il messaggio che la violenza che appare negli stadi, sulle strade, attorno a noi tutti i santi giorni è la stessa. E' sempre quella che attanaglia l'animo dell'uomo.
Essendo solo una piccola parte la sezione degli scalmanati del calcio, una rieducazione è possibile. Secondo me è necessario insistere sul trasmettere i veri valori della vita e, in questo ambito, nel tifo SANO, come, se mi permettete, il nostro, quello del nostro club.
condivido...
... condivido il tuo pensiero!!!!!!!!!!
E' davvero importantissima l'educazione al rispetto, lo stesso rispetto che dovrebbe essere coltivato in TUTTI gli ambiti di vita: nella famiglia, nelle scuole (quanto bullismo...), negli oratori, nei locali, nei luoghi di lavoro. Tanto quanto negli stadi.
Purtroppo lo stadio mi pare sia stato scelto come cartina di tornasole di "muscoli" più esibiti che reali. Muscoli che, e non si capisce bene perchè, oltre ai violenti hanno poi travolto un po' tutto: tifosi pacifici, sciarpe, bandiere, striscioni, megafoni, tamburi, fino ad arrivare a colpire persino ... agh!! ... accendini e cinture ... Non sto scherzando!
Forse perchè lo stadio non è poi un contesto troppo complicato: luoghi circoscritti, strutture circoscritte, gruppi circoscritti, "divise" ben chiare, etc. etc. etc. E poi lo "stadio" catalizza l'opinione pubblica come pochi altri scenari, e dunque l'intervento duro sugli stadi, oltre a garantire grande audience, piace molto al grande pubblico.
In altri contesti, dove la violenza è ben peggiore e dannosa ma il controllo è molto ma molto più difficile, l'intervento non mi pare purtroppo altrettanto deciso ed efficace.
Per la PREVENZIONE, che in teoria è la grande STRADA MAESTRA per affrontare in maniera profonda, radicale e culturale i contesti critici, e che tu hai qui molto ben definito come "educazione al rispetto", le risorse erogate sono invece, stranemente, sempre meno... paradosso insolubile ?
branco, individuo, comunità
Caro MarcoB, mi è piaciuto il tuo commento, e prima di andare a s-finire i miei studenti con due ore di lezioni serali, mando a te e a tutti i lettori un gran saluto e un piccolo spunto (spuntino per la cena in casa). Certo il branco è una costrizione da cui ci si deve liberare. Quando uno si libera (e viene aiutato a farlo) si ritrova individuo, più libero, ma anche un po' (o molto) più solo. Mi sembra che si debba aggiungere un termine significativo e bello: la comunità, quella della famiglia, quella delle persone con cui vivi gomito a gomito ogni giorno (scuola, lavoro, vicinato, ecc.), quella della parrocchia (per chi vi aderisce, o se riusciamo a renderla appetibile). Credo infatti che dietro la resa al branco ci ia una grande solitudine,e anche un forte senso di insignificanza. Ma di questo un'altra volta.
Non potrebbe essere questo il nostro ruolo e il nostro dovere, di costuituire comunità per offiire incontro? Ciaoa te e a tutti