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S. Lucia

S. Lucia

SANTA LUCIA

A metà del primo tratto di via Pietro Frattini, quasi di fronte la palazzo Valenti, si erge un alto edificio dalla svelta facciata in stile Art Nouveau. I suoi muri laterali, però, appena sotto lo sporto del tetto, mostrano una caratteristica, inequivocabile cornice formata da mattoni disposti a dente di sega, sottolineata da una seconda, sempre in mattoni, ma disposta a T.
È l’antica chiesa di Santa Lucia, attualmente a sé stante e ridotta a palestra, e un tempo facente parte del convento delle Clarisse, poi Istituto Luigi ed Eleonora Gonzaga, ora in desolante abbandono.
Torniamo indietro nel tempo. Si sa dal Davari che Raimondo dei Lupi di Soragna, una famiglia nobile che abitava all’incrocio con via Massari, in edifici congiunta da cavalcavia detti “le Volte dei Lupi”, ordinò nel suo testamento del 1372 che alcune delle sue case fossero adibite ad “ospitale pei poveri…denominandolo Hospitalis B.V.M. et Martyrum Christi Luciae et Catherinae”, dedicandolo dunque alla Madonna e alle due sante martiri. In seguito, nel 1380, fece costruire la chiesa e il convento di santa Lucia perché vi fossero accolte le Clarisse, allora abitanti “extra portam fullorum (fuori porta Cerese) in loco Taieti (nella zona del Te)” (Davari, 1903).
Durante la seconda fase delle soppressioni, che fu attuata all’imperatore Giuseppe II e interessò in un primo momento le monache dedite a vita contemplativa, furono ridotti la prima a magazzino privato (1784), il secondo, dopo essere stato ristrutturato sulla base di un progetto dell’architetto Paolo Pozzo, a sede dell’Orfanatrofio Maschile (1789; Iacometti, 1983).
L’atto di soppressione è del 1° aprile 1782 (Archivio Storico Diocesano, Protocollo Generale, Registro 1782- 1783). In quell’anno stesso il dipinto raffigurante santa Lucia, che ornava l’altare della chiesa, venne trasferito nella vicina Sant’Egidio e posto all’altar maggiore; nel successivo, in relazione a ciò, si introdussero nelle cerimonie liturgiche della parrocchia, quelle legate alla festività della santa (la parrocchia ebbe anche una reliquia di lei e una pianeta di colore rosso). In quel luogo la tela rimase fino al 1813, quando fu sostituita dal Martirio di san Vincenzo Levita di Giuseppe Bottani e posta in un vano imprecisato della canonica: questo ci dice Luigi Rosso nei suoi Cenni (1852).
Gli inventari ottocenteschi rimasti, assai succinti, non la nominano in particolare. Quello del 1939, redatto da don Casimiro Brunelli, la segnala in sagrestia, mentre in chiesa, per la venerazione dei fedeli, era collocata una statua in gesso della anta.
Solo nel 1958 don Sergio Iberi, allora parroco, provvide con l’autorizzazione della Curia a sistemarla nuovamente in chiesa, al primo altare a sinistra dell’ingresso, quello di san Guerrino, che necessariamente cambiò titolo (la pala raffigurante il santo fu spostata sulla parete di fronte): ecco perché oggi posiamo ammirarla in questo luogo.
Il Rosso, che è l’unico a ricordarla tra gli studiosi mantovani del passato, l’assegna a Giuseppe Bottani, e non a caso. L’opera infatti fu dipinta nel 1779 dal viadanese Giuseppe Bongiovanni (1756 o ’57 – 1824), allora allievo della Reale Accademia di Belle Arti di Mantova, il quale, pur avendola firmata e datata, ammise, come ci dice un documento coevo, di essere stato “molto aiutato da ambedue i Bottani” (Bazzotti, 1980; Perina, 1989), suoi maestri.

Per inciso, e per un eventuale confronto, per le Domenicane del vicino convento di San Vincenzo, Giuseppe Bottani, direttore dell’Accademia, dipinse l’appena citato Martirio di san Vincenzo Levita (1776) e Giovanni, suo fratello e coadiutore, il Miracolo di san Vincenzo Ferrer, ancora oggi accanto al Martirio nel presbiterio di Sant’Egidio.
Lucia: simbolo e promessa di luce, materiale e spirituale, nella lunga notte del 13 dicembre (o del solstizio d’inverno secondo il calendario giuliano)illumina le tenebre e preannuncia i chiari giorni primaverili. E proprio a questa notte è legata una delle più gentili tradizioni popolari, nata nel Veneto e molto sentita anche dai Mantovani, quella che vuole la Santa portatrice e dispensatrice di doni ai bambini.
La vicenda del suo martirio (a Siracusa, nel 304 d.C., sotto l’imperatore Diocleziano) così come ce le tramanda la leggenda, sono assai complesse e drammatiche: a noi basta accennare a quella che ha suggerito all’iconografia (almeno dal secolo XIV) il più ricorrente dei suoi attributi. Lucia, convertitasi al Cristianesimo, per indurre il promesso sposo, pagano, a rinunciare a lei, si strappò gli occhi: la Madonna glieli ridonò, più belli e lucenti.
Nel nostro dipinto i due occhi, come due surreali gioielli di smalto, si scorgono sul fondo piano di una coppa, tenuta nella mano sinistra da un putto volante dal volto assorto e severo, tutto compreso nel suo compito, il quale con la destra alza anche la palma (martirio) e il giglio (purezza, verginità).
La santa, secondo la tradizione giovane e di bell’aspetto, è avvolta in sontuose vesti seriche dai colori tersi e luminosi. La sua figura, in piedi su una nuvola che avanza verso di noi, domina in altezza, circondata da putti e cherubini. In basso, a sinistra, sulle onde che si stanno placando per sua intercessione, illuminata dalla luce divina, si scorge una piccola nave dall’albero sghembo e dalla vela a malapena raccolta, carica di naufraghi in preghiera, quasi un ex voto incorporato. La lunga “fiamma” bianca e azzurra, che sventola sulla cima dell’albero, potrebbe dare un’indicazione sui committenti, per ora ignoti.
La compostezza della figura della vergine siracusana, il suo atteggiamento ispirato, l’equilibrio compositivo alla base del quale si riconosce la classica struttura a piramide, la qualità sofisticata del colore fanno presumere, da parte dell’ideatore dell’opera, una preparazione completa, nella quale affiorano suggerimenti derivati da modelli raffaelleschi e reniani. Lo stesso inserto di vita vissuta della navicella, condotto per contrasto con il nucleo principale della composizione con un fare rapido e bozzettistico, assai efficace, che tiene conto del diverso rapporto spaziale, ci dà la misura di una consumata abilità: certo Giuseppe Bottani, a cui rimandano i dati riscontrati, deve avere, in pratica, concepito e diretto l’esecuzione del dipinto affidato dalla committenza al Bongiovanni, allora poco più che ventenne e da soli tre anni allievo dell’Accademia.
Ricordiamo del pittore viadanese anche la pala di Santa Liberata della chiesa parrocchiale di Romanore, dipinta tra il 1791 e il 1792 durante il “pensionato” a Roma (Martelli, 1983).

Maria Giustina Grassi