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Catechesi

2017 - Mese di Maggio

Ecco, dopo tanto indugiare, i testi delle predicazioni presentate durante il mese di maggio del 2017, per l'approfondimento e la riflessione.

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2017_MeseDiMaggio_I MISTERI DEL ROSARIO_Aurora.pdf497.9 KB
2017_MeseDiMaggio_APOCALISSE_Elena.pdf551.58 KB
2017_MeseDiMaggio_AmorisLaetitiaEFamiglia_Carlo.pdf667.96 KB

Predicazione mese di maggio 2015 - 2a sett.

Unità Pastorale di S. Egidio e S. Apollonia - Mantova
Mese di Maggio 2015 - seconda settimana 11-15/05/15 (Giovanni G.)

EXPO 2015: “Nutrire il pianeta, Energia per la vita”

Expo Milano 2015 è l’Esposizione Universale che l’Italia ospiterà dal primo maggio al 31 ottobre 2015 e sarà il più grande evento mai realizzato sull’alimentazione e la nutrizione. Per sei mesi Milano diventerà una vetrina mondiale in cui i Paesi mostreranno il meglio delle proprie tecnologie per dare una risposta concreta a un’esigenza vitale: riuscire a garantire cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti i popoli, nel rispetto del Pianeta e dei suoi equilibri. Un’area espositiva di 1,1 milioni di metri quadri, più di 140 Paesi e Organizzazioni internazionali coinvolti, oltre 20 milioni di visitatori attesi. Sono questi i numeri dell’evento internazionale più importante che si terrà nel nostro Paese.
Expo Milano 2015 coglie l’urgenza di descrivere e confrontarsi sulla storia dell’Uomo e sulla produzione di cibo, nella sua doppia accezione di valorizzazione delle tradizioni culturali e di ricerca di nuove applicazioni tecnologiche. E lo fa attraverso una forma aperta e collaborativa perfettamente in linea con il nuovo significato che l’Esposizione Universale ha assunto nel corso del tempo: non più solo una vetrina industriale ma soprattutto una tappa del percorso culturale, di crescita e di cambiamento che valorizza l’interazione tra i popoli nel rispetto del Pianeta.
Expo Milano 2015 sarà la piattaforma di un confronto di idee e soluzioni condivise sul tema dell’alimentazione, stimolerà la creatività dei Paesi e promuoverà le innovazioni per un futuro sostenibile. Ma non solo. Expo Milano 2015 offrirà a tutti la possibilità di conoscere e assaggiare i migliori piatti del mondo e scoprire le eccellenze della tradizione agroalimentare e gastronomica di ogni Paese. Per la durata della manifestazione, la città di Milano e il Sito Espositivo saranno animati da eventi artistici e musicali, convegni, spettacoli, laboratori creativi e mostre.
Noi come cristiani dobbiamo avere un compito critico per sottolineare che proprio nel rapporto col cibo si rende più evidente la disarmonia che segna il rapporto dell’uomo con il creato e con gli altri esseri umani; qui più che altrove la cultura dello scarto si manifesta in maniera lampante. Per questo la Chiesa è presente ad Expo con due padiglioni: uno della Santa Sede ed uno della Caritas. Esserci per dare a pensare: questo è il compito dei cristiani in Expo Milano 2015.
Il cibo, l’atto del nutrire e quello di essere nutriti sono al cuore dell’esperienza cristiana: possiamo considerare tutta la storia umana come un lento ed inarrestabile cammino verso quel banchetto di comunione che Dio sta preparando per tutti noi. In questa prospettiva possiamo ritenere le nostre esistenze come esercizi di preparazione a questo evento, esercizi che Dio ha immaginato per noi quando ci ha creati. Declinati a partire dalla tematica di Expo 2015, questi esercizi rivelano una grammatica che ruota attorno a quattro dimensioni:
• dimensione ecologica
• dimensione economica
• dimensione educativa
• dimensione religiosa
dimensioni che caratterizzano l’identità umana.

1) Dimensione Ecologica
Il racconto delle origini del mondo e dell’umanità sviluppato nel libro della Genesi, il primo libro della Sacra Scrittura, dell’Antico Testamento e della Torah (“Legge”) Ebraica, riesce a condensare valori e pratiche che rispondono bene alle domande di cibo e futuro alla base di Expo 2015, e spingono noi cristiani ad un’assunzione più decisa e convinta della tematica ecologica come luogo di testimonianza della nostra fede nel Dio di Gesù Cristo.
Nella narrazione della creazione del mondo, Dio creatore, dopo ogni fase della sua azione, si compiace, perché quello che Egli chiama all’essere è “buono”. Ogni creatura possiede un’intrinseca bontà e perfezione, sebbene la creazione non abbia ancora raggiunto quello stadio di perfezione ultima a cui Dio l’ha destinata, e a cui perverrà solo mediante il tempo ed una gloriosa “nuova creazione” in Cristo e con Cristo (La nuova Gerusalemme – cap.21 Apocalisse). Per ultima avviene la creazione dell’uomo e della donna ai quali Dio comanda: “Riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra.” “Soggiogare” e “dominare” potrebbero giustificare un dominio dispotico e sfrenato che faccia scempio della terra e dei suoi frutti. In realtà si legge di seguito nel libro della Genesi come si debba svolgere questo compito. “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.” L’uomo e la donna (l’umanità nell’unità e complementarità delle sue componenti) sono così chiamati a “dominare” la creazione, custodendola e coltivandola. Si tratta di una natura appena creata, buona produttiva e generosa. Questa però non corrisponde alla percezione che ne abbiamo noi. Infatti, come si evince dal prosieguo del racconto di “Genesi”, il peccato originale con le sue conseguenze “condiziona” il piano di Dio. E questo lo rileviamo in Isaia [24, 1-13] dove si allude ad una terra ferita che soffre per il peccato dei suoi abitanti. (“… perché hanno trasgredito le leggi, hanno disobbedito al decreto, hanno infranto l’alleanza eterna. Per questo la maledizione divora la terra, i suoi abitanti ne scontano la pena; … gemono tutti i cuori festanti … è finito il chiasso dei gaudenti … è chiuso l’ingresso di ogni casa … ogni gioia è scomparsa se ne è andata la letizia dalla terra. …”) e nel libro del profeta Osea [4,2-3] che descrive una realtà simile a quella dei giorni nostri (“Si spergiura, si dice il falso, si uccide, si ruba, si commette adulterio, tutto questo dilaga e si versa sangue su sangue …”); mentre San Paolo, nella Lettera ai Romani annuncia la speranza della terra di essere redenta con Cristo [8,21] (“… anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.”)
Dio quindi ci rende responsabili di una gestione armoniosa della natura e delle sue risorse, delle quali non siamo né padroni né creatori. In qualità di “amministratori provvisori” dobbiamo averne cura con lo stesso amore del suo Proprietario e Creatore (come si legge in Matteo 25,14-30 dove è riportata la Parabola dei talenti). L’amore che Dio nutre per la terra è manifesto: Lui l’ha generata, dandole forma grazie alla Sua Parola [Seconda Lettera di Pietro 3,5 “… la terra uscita dall’acqua e in mezzo all’acqua, ricevette la sua forma grazie alla parola di Dio, “]. Da essa desidera essere lodato [Dal libro del profeta Daniele 3,74 “Benedica la terra il Signore, lo lodi e lo esalti nei secoli. …] in attesa di esserne il Re [Dal libro del profeta Zaccaria 14,9 “Il Signore sarà re di tutta la terra. Il quel giorno il Signore sarà unico e unico il suo nome.”].
La nostra missione dunque consiste nell’amare il creato, nel custodirlo e nel farlo fruttificare, anche a costo del sudore della nostra fronte [Genesi 3,19: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finchè non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: …”]. La specificità della creazione è di essere un dono per tutti; di conseguenza da Dio riceviamo il comando di conservare la Terra nella sua natura di dono e benedizione affinchè serva e resti a disposizione di tutti. Il “diritto-dovere” della persona umana di “dominare” la Terra deriva dal suo essere a immagine di Dio. La responsabilità della creazione è di tutti, di ogni persona umana in quanto tale, con i propri mezzi, possibilità e conoscenze. Più precisamente è l’umanità nel suo insieme che è e deve sentirsi responsabile della creazione. Nel Salmo 37 (versetto 29) si legge “I giusti erediteranno la terra e l'abiteranno per sempre”: abitare in un luogo, qualsiasi esso sia, presuppone la consapevolezza e l’impegno per la sua conservazione e corretta amministrazione.
Per mettere in pratica questa missione , occorre superare la forzatura dell’ordine degli affetti che sta caratterizzando l’attuale fase culturale; in particolare le contraddizioni più vistose che mettono a rischio l’umano ed il suo habitat sono due:
La prima riguarda una visione del mondo come repertorio, di mezzi per l’ottimizzazione del godimento individuale. Il dominio del denaro si presenta servizievole nei confronti della cura di sé, nel momento stesso in cui è in grado di produrre strumenti di controllo della sfera più intima dell’umano.
La seconda riguarda il fatto che l’ossessione della cura di sé (auto-affezione come principio primo dell’ordine degli affetti) è un potentissimo fattore deprimente la fede nel mondo e la speranza nella vita. In un primo momento essa distrae le affezioni dall’umano condiviso sottraendole alla passione per la signoria e la cura del suo habitat spirituale e materiale; a cascata poi ne risentono la famiglia, la città, la società, la nazione, le alleanze tra popoli. Le forze creative vengono dirottate sulla cura individuale di sé, che si attende dalle istituzioni dell’umano l’assegnazione del diritto di consumarlo a questo scopo. L’individuo dunque stressa e consuma l’umano che è comune, senza alcun limite; l’umano che è comune perde forze, nutrimento e attrattiva. Al singolo viene imposto di provvedere da sé stesso alla realizzazione migliore di sé; separato però dall’umano condiviso. Poiché questa ingiunzione all’autorealizzazione non fissa alcun limite, nessun approdo sarà mai considerato accettabile; la malattia invalidante, la vecchiaia vulnerabile, la povertà materiale ritornano ad essere il segno di una tara imbarazzante o di una colpa oscura, proprio come ai tempi di Gesù. Domani forse lo saranno la bruttezza, la mitezza, la passione per la difesa dei deboli … In realtà non c’è limite per i selezionatori della vita degna di essere custodita.
Quali possono essere allora dei suggerimenti al fine di superare le contraddizioni emerse? Innanzitutto ridiventare più creativi: il desiderio diventa vitale e felice quando genera qualcosa che commuove gli altri, che arricchisce l’umano per la felicità di tutti: un bambino, una poesia, una sinfonia, una chiesa, ma anche quartieri esteticamente gradevoli, scuole belle e funzionali, una sapiente regia urbana del verde, degli spazi vuoti da arricchire con arredi invitanti …. Tutto insomma pur di rendere bello il mondo e non pensare al sé. E proprio così il sé scoprirà di esserci, e di essere pure felice!
La storia del cristianesimo è ricca di traduzioni esemplari di questo compito; basti citare ciò che hanno fatto i monaci a livello di recupero del territorio, oltre a tutti i loro studi sulla natura e al lavoro di conservazione della cultura.
“Esorto tutti a vedere il mondo con gli occhi di Dio Creatore: la terra è l’ambiente da custodire e il giardino da coltivare. La relazione degli uomini con la natura non sia guidata dall’avidità, dal manipolare e dallo sfruttare, ma conservi l’armonia divina tra le creature e il creato nella logica del rispetto e della cura, per metterla a servizio dei fratelli, anche delle generazioni future” [Papa Francesco sulla 45a Giornata Mondiale della Terra (22 Aprile 2015)]

2) Dimensione Economica
La domanda di cibo a livello globale è in continua crescita a causa sia dell’aumento progressivo della popolazione mondiale sia del cambiamento dei consumi alimentari soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Per far fronte a tale domanda è necessario mettere in atto azioni sinergiche che consentano un’intensificazione della produzione agricola ma anche un miglioramento della qualità dei prodotti e una riduzione delle perdite. Lo scenario d’azione attuale è difficile essendo caratterizzato dagli effetti combinati del cambiamento climatico e dalla crescente competizione per la terra, l’acqua e l’energia (biocarburanti).
I piccoli produttori agricoli, oltre ad essere fondamentali per la realizzazione di tali pratiche a livello capillare, svolgono un ruolo prioritario nella conservazione della biodiversità agricola, in grado nel lungo periodo di mantenere buona la qualità dei terreni e di promuovere la sicurezza alimentare. Ciò è particolarmente vero nelle regioni con un’elevata diversità genetica delle colture in cui i piccoli agricoltori mantengono vive in situ le varietà esistenti consentendo la conservazione e la tutela degli ecosistemi. (Si consideri ad esempio la regione andina relativamente alla coltura delle patate, pensate che se contano più di 3000 varietà …) La ricca varietà di colture mantenute costituisce un deposito di cibo, fibre, materiali da costruzione, risorse naturali per farmaci che aumentano la capacità di affrontare cambiamenti e condizioni sfavorevoli da parte dei poveri nelle zone rurali. Il ruolo importantissimo di questi piccoli agricoltori è anche quello di sostenere l’attività di collezione delle diverse varietà di semi vegetali, fondamentale per la conservazione delle specie e per la produzione di sementi migliorate che possano garantire una maggiore produttività e resistenza ai cambiamenti climatici.
[Occorre però considerare un altro aspetto importante per la produzione: la qualità dei suoli. Lo scarso uso di fertilizzanti (tipico dei paesi poveri) contribuisce alla perdita progressiva dei nutrienti del suolo, che vengono assimilati dalle coltivazioni e non più reintegrati; i terreni sono progressivamente degradati e rendono sempre meno. Al contrario l’uso eccessivo di fertilizzanti e pesticidi (tipico di molti paesi ad alto reddito) contribuisce all’acidificazione dei terreni e delle acque , avvelenando le risorse di superficie e sotterranee.]
Alcuni dati che mettono in primo piano il continente Africano relativamente a questa tematica:
• Il 75% dei terreni agricoli in Africa è degradato.
• L’Africa detiene circa il 50% delle terre agricole non ancora coltivate a livello globale.
• I piccoli agricoltori (in gran parte donne) sono responsabili del 90% della produzione di cibo in Africa, e assicurano circa la metà dell’approvvigionamento alimentare su scala globale.
Queste cifre indicano come sia necessario un cambiamento nelle politiche di sviluppo in previsione della probabile espansione dei terreni ad uso agricolo. Il sostegno ed il trasferimento di conoscenza ai piccoli agricoltori può contribuire positivamente in termini di sostenibilità ambientale e di aumento della produzione agricola. Sfortunatamente l’attuale intreccio tra forze di mercato ed interessi politici tende ad agevolare le grandi estensioni di coltivazioni incentrate su singole colture.
Per raggiungere quindi l’obiettivo, evitando effetti socio-economici negativi, serve un approccio in grado di generare effetti positivi multipli, dalla rigenerazione della salute dei terreni agricoli alla tutela delle varietà delle coltivazioni, alla gestione sostenibile delle acque. La natura stessa dei sistemi di produzione sostenibili è multidimensionale e dinamica: essi dovrebbero offrire agli agricoltori combinazioni diverse di pratiche da scegliere (inclusa l’integrazione di colture, pascoli, alberi e allevamento di bestiame) e da adattare alle condizioni locali.
L’eliminazione della fame (e in conseguenza della povertà) dipende in larga misura dalle modalità con cui individui e comunità hanno accesso alla terra ed alle risorse ad essa collegate; tale accesso è regolato da “sistemi di proprietà” disciplinati da accordi formali o da pratiche consuetudinarie. Risorse naturali quali terra, pascoli, mare, acque fluviali e foreste però sono caratterizzate da una debole definizione dei diritti di proprietà.
Vediamo ora come questo si ripercuote in concreto su due categorie di persone: donne e popolazioni indigene, le quali giocano un ruolo fondamentale nel sistema alimentare mondiale.
Nella maggior parte dei paesi nel mondo le donne sono i soggetti principali della trasformazione e conservazione di prodotti alimentari, della loro preparazione e distribuzione, sia all’interno delle famiglie che al di fuori con la vendita di eventuali eccedenze. Spesso però le donne sono colpite da varie forme di discriminazione: in famiglia dove hanno minore controllo sull’uso del reddito e minore accesso al cibo; nella società dove hanno un accesso ridotto alla terra, agli attrezzi per coltivarla, alle sementi di qualità, agli animali da allevamento ed anche un più difficile accesso al credito. Analogamente le popolazioni indigene, per le quali la terra non è meramente un bene economico bensì vita (esse hanno con la terra un forte legame spirituale, culturale e sociale), risultano attualmente particolarmente vulnerabili alla sicurezza alimentare. Queste popolazioni infatti spesso non sono in grado di vantare diritti di accesso alla terra legalmente riconosciuti e quindi sono facilmente soggette a fenomeni di sottrazione di terre coltivabili il cosiddetto “land grabbing” (letteralmente “accaparramento delle terre”, indica tutte quelle situazioni in cui larghe porzioni di terra considerate “inutilizzate” vengono vendute a terzi, aziende, governi di altri paesi senza il consenso delle comunità che ci abitano o che le utilizzano per coltivare e produrre il loro cibo. E’ questo un fenomeno scandaloso cresciuto a dismisura negli ultimi anni con lo scoppio della crisi finanziaria mondiale; gli investitori cercano dove coltivare cibo per l’esportazione, per i biodiesel o semplicemente per trarre profitti; gli aspetti negativi sono evidenti in quanto: - o l’organizzazione della produzione viene fatta a scapito delle economie locali e della tutela dell’ambiente circostante, generando spesso perturbazioni a livello sociale in quanto la popolazione denutrita è consapevole del fatto che importanti quantità di alimenti le vengono sottratte con l’esportazione – o le popolazioni rurali vengono estromesse dalle terre che occupano, perdendo il loro lavoro nel settore agricolo e ingrossando le aree di povertà delle periferie urbane – o addirittura i terreni comprati sono lasciati inattivi). Garantire ai popoli nativi l’accesso al cibo e alle risorse non è solo assicurarne la capacità di esistere in quanto comunità, ma è anche tutelare pratiche di sviluppo sostenibile dell’ambiente e conservare il patrimonio di cultura e conoscenze tradizionali di cui essi sono detentori.
Dopo un lungo negoziato coordinato dalla FAO ed al quale hanno preso parte governi, società civile e settore privato, sono state elaborate “Linee-guida volontarie per una governance responsabile dei regimi di proprietà applicabili alla terra, alla pesca e alle foreste nel contesto della sicurezza alimentare nazionale”, approvate ufficialmente dal Comitato sulla Sicurezza Alimentare Mondiale nel 2012. Si tratta del primo documento in assoluto condiviso sul possesso della terra, risorse ittiche e foreste, che offre un quadro di riferimento per gli Stati e fissa i principi e le prassi accettate a livello internazionale per la gestione responsabile di tali risorse. Le linee guida si fondano sui principi di non discriminazione, di uguaglianza di genere, di trasparenza e responsabilità, di partecipazione ai processi decisionali; nel documento, a dimostrazione della lodevole base etica al suo fondamento, si sottolinea che solo attraverso la difesa della dignità umana e la promozione di sistemi di equità e giustizia sociale si può giungere ad una governance (gestione) responsabile della terra, in grado di rispettare i diritti umani e le identità culturali di tutti gli individui.
[Dio si serve del cibo per mostrare la concretezza del legame che ha istituito con il popolo d’Israele e l’episodio della manna nel deserto ben simbolizza questa attitudine: “Hai concesso loro il tuo spirito buono per istruirli e non hai rifiutato la tua manna alle loro bocche e hai dato loro l’acqua per la loro sete. Per quarant’anni li hai nutriti nel deserto e non è mancato loro nulla; le loro vesti non si sono logorate e i loro piedi non si sono gonfiati” [Libro di Neemia Cap.9, 20-21] Gesù, nella sua predicazione, fa propria questa attitudine di Dio, come testimoniano gli episodi relativi alla “moltiplicazione” dei pani. Racconta il Vangelo di Matteo che Gesù “chiamò a sé i discepoli e disse: Sento compassione di questa folla: ormai da tre giorni mi vengono dietro e non hanno da mangiare. Non voglio rimandarli digiuni, perché non svengano lungo la strada” [Mt 15,32] In una logica di stretta consequenzialità Gesù chiede che tale atteggiamento sia fatto proprio dai suoi discepoli: “Voi stessi date loro da mangiare!” [Mt 14,16] ]
Nell’Enciclica Evangelii Gaudium (nov 2013) Papa Francesco considera non più tollerabile “il fatto che si getti il cibo, quando c’è tanta gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive … La crisi finanziaria che attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano! Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione del vitello d’oro [cfr. Es 32,1-35] ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di un’economia senza volto e senza uno scopo veramente umano. La crisi mondiale che investe la finanza e l’economia […] riduce l’essere umano ad uno solo dei suoi bisogni: il consumo.”
Come cristiani vogliamo partecipare ad EXPO 2015 per mostrare come la grande questione del cibo e delle risorse sia la cartina al tornasole che porta alla luce i tanti difetti e le tante ingiustizie del nostro modo di immaginare e di governare l’economia; come cristiani abbiamo il compito di essere nella storia come l’anima del mondo, proponendo la vita buona del Vangelo in tutti gli ambiti dell’esistenza, ambito economico compreso.

3) Dimensione Educativa
Per la fede cristiana il cibo è il crocevia di tutta una serie di legami generatori a loro volta di pratiche che maturano le persone e ne arricchiscono le identità. (Legami tra Dio e gli uomini, legami tra gli esseri umani e legami tra esseri umani e il Creato). Da questi legami scaturisce
la terza dimensione legata al cibo ed al gesto del nutrire: quella educativa.
Il bisogno di mangiare, o meglio il suo desiderio, non si è costituito in noi “naturalmente” (da sé); è stato piuttosto sollecitato dall’offerta di un altro, dal seno della madre che ci ha allattati o dal biberon nelle mani di mamma, papà o di una balia. Il soddisfacimento del primo pasto avvenuto ad opera di un altro soggetto, diverso da noi, ci ha spinto a ricercare la ripetizione di quella stessa esperienza di soddisfazione. Constatiamo quotidianamente che ogni organismo vivente mangia; l’uomo però è diverso. Quando non è più ridotto a solo organismo, è l’unico che lo fa con soddisfazione. Ed è per favorire questa soddisfazione che l’uomo ha costruito le posate con cui prendere il cibo per sé e porgerlo agli altri, apparecchia la tavola con porcellane e cristalli, trasforma e rielabora gli elementi della natura con la cucina e la cottura, ha suddiviso il pasto in portate sequenziali e logiche; l’uomo si è persino inventato l’aperitivo con gli stuzzichini per far venire voglia di mangiare e il sorbetto tra il pesce e la carne per pulire il palato e non contaminare la percezione dei sapori. Io mangio se mi va: ecco dove sta la ragione per mangiare. Il medico e psicoanalista Giacomo Contri ha più volte sottolineato come si viva per mangiare e non si mangi per vivere, ribaltando il celebre detto noto a tutti. Il mangiare ridotto a pura introduzione di carburante per l’organismo presto o tardi finisce per mostrare il suo aspetto patologico; ne sono triste testimonianza le persone anoressiche: non basta che lo stomaco brontoli per aver voglia di mangiare, occorre essere ben disposti verso l’altro per sedersi a tavola, altrimenti anche lo stimolo della fame, universalmente ritenuto potentissimo e insopprimibile, può essere drammaticamente ignorato. L’obiezione operata dall’anoressia non è tanto e solo all’introduzione di cibo, ma è proprio all’atto del mangiare come atto di rapporto, come soddisfazione condivisibile con un altro. La bulimia, versione speculare dell’anoressia, vive del medesimo errore. Ciascuno di noi può verificare come in compagnia si tenda a mangiare di più e con maggior gusto; quando le cose vanno bene non ci si nutre solo delle sostanze contenute nei cibi, ma anche delle parole che i commensali si offrono reciprocamente. In un certo senso si può dire che mangiamo anche la compagnia di coloro che siedono a tavola con noi; ed è per questo che con certe persone, a volte, non riusciamo a mangiare: non è obiezione al cibo, ma alla loro presenza, alla loro compagnia (da cum-panis, “colui che condivide il pane”).
[Al giorno d’oggi la questione del cibo viene essenzialmente ridotta ad un fatto salutistico-medicalizzante. Qualora emergano in famiglia problematiche legate al cibo (anoressia, bulimia) ci si rivolge quasi esclusivamente a nutrizionisti e dietologi; focalizzandosi però solo sul cibo si ottengono spesso risultati addirittura contrari a quelli attesi: infatti fissandosi sulla patologia e mostrando che essa ha ragione nel considerare il mangiare solamente una questione di bilancia e calorie, di fabbisogni e tabelle non si fa altro che rafforzarla. La soluzione ai problemi della tavola in realtà avviene il più delle volte non a tavola ma nella vita nei rapporti con gli altri.]
[E’ sempre nell’ottica del considerare la fame (così come sperimentata nel mondo Occidentale attuale) un costrutto umano nient’affatto naturale che si spiega ragionevolmente il detto: “L’appetito vien mangiando”. Mentre la fisiologia vorrebbe che, con l’introduzione di calorie e principi nutritivi, lo stimolo-fame si placasse e non attivasse, la “non-obiezione” ad avere quando possibile un compagno di tavola con la sua presenza piacevole e la sua gradita compagnia, spiega come possa venire voglia di mangiare (nasca l’appetito).]
Appurato dunque che l’uomo è l’unico in natura per il quale durante il pasto il nutrimento non è dato solo dal giusto mix di proteine – carboidrati –grassi, ma anche dalle parole, dai concetti e dai pensieri di coloro che mangiano con lui, possiamo affermare che l’occasione del pasto rappresenta un momento speciale nella giornata, da non trascurare fin dalla sua preparazione.
Attualmente gli eccessivi tempi di percorrenza casa-lavoro, l’organizzazione delle attività, la suddivisione dei compiti, il desiderio di ottimizzare il tempo, la concezione stessa del lavoro e della scansione della giornata hanno reso inaccessibile ai più il ritorno a casa per la pausa pranzo. Purtroppo anche il momento della colazione soffre dei tempi sempre tirati del mattino, dell’occhio all’orologio che viaggia sempre troppo veloce, della preoccupazione per il traffico in strada, dell’angoscia di arrivare in ritardo a scuola e al lavoro; consumata pertanto velocemente e magari in momenti differenti, anche la colazione non offre grandi occasioni di incontro. Rimane così la cena come momento principale della vita comune; un tempo prezioso a cui prestare cura e un importante appuntamento in quanto rappresenta forse l’unico “spazio narrativo” della famiglia all’interno di un’intera giornata.
E’ quindi più che mai importante che la tavola torni al centro delle nostre serate. La cena va considerata un appuntamento da preparare con tutta la cura di cui si è capaci e a cui ci dispiaccia mancare. La cura della tavola si rivela uno dei modi a nostra disposizione per trattare bene noi stessi e gli altri. Non è affatto necessario preparare costose o sofisticate ricette; quel che conta è la cura di ciò che si fa, come ad esempio nella preparazione di un risotto: cotto al punto giusto da rimanere sgranato, mantecato con burro e parmigiano per aggiungere cremosità, impiattato fumante è pure un modo di trasmettere agli altri quanto teniamo a loro. [L’attenzione che ci mettiamo è il fattore che facilita e favorisce il rapporto con l’altro che si sente preferito e onorato; ed ecco che la cura di un risotto apre la strada all’essere commensali e compagni.] La cura messa nella preparazione deve poi continuare nel momento del consumare insieme il cibo; si mangerà infatti tanto meglio quanto più sereno, affabile e gradevole sarà il clima che siamo in grado di generare. In quest’ottica è sempre bene stare attenti alle regole, magari ricevute come tradizione dalla nostra famiglia di origine, ma non darle per scontate; ovvero occorre valutare di volta in volta il loro senso e l’opportunità o meno della loro applicazione in particolar modo ai figli. “Si deve finire tutto quello che si trova nel piatto” (se uno dei vostri figli avanza qualcosa, non sempre è per cattiva volontà; potrebbe aver sovrastimato quanto può mangiare oppure ha creduto che quel cibo fosse più buono di quel che poi è risultato al suo palato. E’ davvero “educativo” al fine di far capire il valore del cibo costringerlo ad ingurgitare qualcosa che non è gradito?) “A tavola si deve stare composti” (questa indicazione che va nella direzione del creare le condizioni perché si stia bene insieme, può a volte divenire fonte di umiliazione per i figli, un motivo di ripresa e rimprovero continui tali da ottenere l’effetto contrario; spesso ciò che accade durante i pasti è solamente la conseguenza di come si arriva a tavola, dell’umore e dei pensieri che precedono il sedersi insieme). In generale quindi per ottenere l’applicazione delle regole cerchiamo soluzioni che tengano conto anche di tutti gli altri momenti di vita condivisa; se la casa torna ad essere un luogo dove tutti stanno bene allora chi è seduto alla stessa tavola, da semplice coabitante di uno spazio condiviso può realmente farsi commensale.
Abbiamo già visto che oltre alla pasta, alla carne, ai formaggi, a tavola mangiamo anche le parole degli altri; ed allo stesso modo noi offriamo le nostre parole a chi siede a tavola con noi. Dobbiamo pertanto avere il coraggio che queste parole ci siano, non siano a vanvera e trovino lo spazio che si meritano. Ad esempio , facciamo il possibile per tenere il televisore spento mentre ceniamo; sì ci vuole coraggio, perché la televisione parla lei, riempiendo quel silenzio che potrebbe imbarazzarci; parla al nostro posto, liberandoci dal lavoro di raccontarci. Niente di male se talvolta qualcosa di speciale catalizza l’attenzione; sarà l’occasione per parlarne poi insieme scambiandosi le reciproche opinioni. Ciò che è meglio evitare è la sistematica invasione di campo da parte della televisione. Non basta però tener spenta la scatola parlante; occorre che lo spazio liberato venga degnamente occupato dalla nostra parola.
[Troppo spesso si sentono genitori lamentarsi del fatto che i propri figli non parlano con loro, non “comunicano”. “Com’è andata oggi? Bene! Cosa avete fatto? Niente!” sono un classico della (non) comunicazione in molte famiglie. Proviamo a capire cosa succede … La domanda diretta: Com’è andata oggi? Di solito significa Com’è andata oggi a scuola? E alla fine quello che interessa sapere per lo più è: Che voto hai preso oggi? Ecco questo non è conversare, è monitorare i progressi scolastici, valutare le performance, accertarsi delle riuscite. E i ragazzi tendono a sottrarsi a questo, sentendo puzza di bruciato. E’ piuttosto ricorrente incontrare figli che non hanno idea di che lavoro facciano i genitori, soprattutto i padri; evidentemente è mancata loro la dimensione del racconto, quella della quotidianità, del giorno per giorno, ciò che potremmo chiamare la dimensione narrativa della cena. La cena può essere la perfetta occasione perché i grandi si raccontino, con calma, la giornata, se la raccontino fra loro perché interessati l’uno alle vicende dell’altra: i successi ottenuti, gli imprevisti incontrati, i contrattempi risolti, gli incontri fruttuosi, le attese deluse, le speranze realizzate. Ai figli di solito piace ascoltare i genitori quando parlano di loro; grazie a questo racconto quotidiano imparano a conoscerci, scoprono cosa facciamo, come pensiamo, in cosa crediamo e confidiamo, dove desideriamo arrivare e con chi. Se quindi a tavola c’è questo scambio reciproco di esperienze fra grandi, sarà più facile per il figlio aggiungersi ad esse, intervenire con qualcosa di suo. Se si evita l’interrogatorio e si crea un clima di fiducia e libertà si potrà scoprire che non di sola scuola, interrogazioni e voti vivono i ragazzi, ma che hanno desideri, paure, preoccupazioni e attese, e che pensano, formulano giudizi su sé stessi, su di noi e su tutto il mondo reale.]
Abbiamo quindi visto che la tavola può e sa diventare, grazie a noi, luogo di incontro e di narrazione, di scambio e di condivisione. Ma non solo; diventa anche luogo di invito, e quindi anche luogo di civiltà e socialità. Apriamo allora le case agli amici nostri e dei nostri figli. Quel po’ di spesa in più che dovremo fare sarà compensata dal guadagno che arriverà dalle loro idee, dagli spunti, dall’ascolto e dalle parole che ci offriranno.
[Sempre relativamente alla dimensione educativa dedichiamo ora una riflessione al digiuno (dal latino jejunus “affamato” – da questa radice latina deriva anche il termine opposto desinare dis-jejunare “rompere il digiuno”)
Sin dalle sue origini, l’esperienza di fede prima ebraica e poi cristiana ha saputo scrivere il rapporto con Dio nella carne degli uomini proprio attraverso il calendario alimentare e lo strumento dell’ascesi. Il processo di secolarizzazione ha fatto sì che noi occidentali lasciassimo tutto questo nostro tesoro alle Chiese orientali o ad altre religioni, Islam in primo luogo (il Ramadan è uno dei cinque pilastri della fede musulmana). A noi sono rimaste soltanto le “diete”, forme laiche di ascesi e astinenza, in nome di un benessere che assume i toni di una spiritualità laica, di una religione della gratificazione immediata, di una fede senza Dio.
In realtà tutte le grandi religioni sono fermamente convinte che il digiunare volontario è un atto per sua natura simbolico. Basti pensare ad Isaia (58, 6-7) “e’ questo il digiuno che il Signore vuole: sciogliere le catene inique, togliere i legami dal giogo, rimandare liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo, dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, i senza tetto, vestire uno che vedi nudo, non distogliere gli occhi da quelli della tua carne”. Oppure all’ironia di Gesù nei confronti di un’astinenza meramente ritualistica che ti fa assumere un’aria malinconica e sfigurare la faccia, alla quale si oppone paradossalmente il profumarsi la testa ed il lavarsi il viso (vedi Mt 6, 16-17); il digiuno non deve essere farsa, ma una decisione intima che esprime autodisciplina, liberazione dall’egoismo, dalle false necessità, ed anche una purificazione dello spirito, un controllo di sé e dei propri sensi. I Padri del deserto non esitavano a dichiarare che “è meglio bere vino con umiltà che bere acqua con orgoglio”.
Anche l’Islam, con la voce di uno dei suoi grandi maestri mistici, al-Ghazali (1058-1111), ammonisce che il vero digiuno è astenersi dai peccati della lingua e delle altre membra.
Persino la tradizione Indù con Gandhi si è mossa su questa linea: il digiuno non ha senso se non educa alla sobrietà e se non è accompagnato da un costante desiderio di autodisciplina.
Nella tradizione cristiana c’è una virtù che esprime compiutamente il senso del digiunare: la temperanza. La sua connotazione più popolare riguarda la lotta alla perversione del corretto uso del cibo. Essa però era anche chiamata enkrateia cioè “dominio di sé, autocontrollo” oppure sophrosyne cioè “saggezza, moderazione, esercizio corretto dei pensieri e delle passioni”. Ebbene la temperanza alimentare è certo sobrietà e controllo delle pulsioni ma deve diventare soprattutto espressione positiva della carità, come ammonisce San Giacomo nella sua Lettera: “Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? [Gc 2, 15-16]. Quindi è necessaria la moderazione come appare dalla raccomandazione di San Paolo a Tito: “Esorta i più giovani ad essere sobri, offrendo te stesso come esempio” [Tt 2, 6-7]. Questa però è solo la prima tappa interiore; infatti dice San Pietro nella sua prima Lettera: “Siate moderati e sobri per dedicarvi alla preghiera” [1Pt 4,7]. In conclusione possiamo dire che all’ascesi personale della sobrietà si devono associare di conseguenza la carità fraterna e la spiritualità.]
Nel Cristianesimo il pasto è diventato presto un rito ovvero un momento capace di generare legami profondi tra i partecipanti, legami in grado di modificare le vite dei singoli, dando loro nuovi scopi e significati di vita. Così il pasto si è aperto all’esperienza della condivisione e della solidarietà: il cibo diventa sinonimo di dono, nelle forme sempre attuali delle mense aperte ai poveri, o in quelle più moderne dei banchi alimentari. Il pasto consumato insieme diviene un’esperienza di ricostruzione della propria identità, un “rifacimento” per così dire di sé stessi, nella linea del “reficere” (latino) che sta alla base del concetto stesso di refettorio; un reficere reso possibile dalla natura plurale del cibo di cui l’uomo ha bisogno per nutrirsi: materiale e spirituale, culturale e comunitario, quotidiano e festivo, personale e solidale. Un’esperienza possibile nelle comunità monastiche ma anche attorno ai tanti tavoli delle nostre famiglie; un’esperienza che esalta l’essere umano in tutte le sue differenze che ne strutturano l’identità: i nonni accanto ai nipoti, i genitori insieme ai figli, l’uomo di fronte alla donna. Nella famiglia il pasto è il momento del raduno dei sui membri, il luogo della sua crescita, lo spazio per la celebrazione delle sue feste.
Con le parole di papa Francesco:
“Dalla famiglia, prima comunità educativa, si impara ad avere cura dell’altro, ad amare l’armonia della creazione e a godere e condividere i suoi frutti, favorendo un consumo razionale, equilibrato e sostenibile. Sostenere e tutelare la famiglia affinché educhi alla solidarietà e al rispetto è un passo decisivo per camminare verso una società più equa e umana.” [Francesco “Messaggio per la Giornata Mondiale dell’Alimentazione 16 Ottobre 2013]

4) Dimensione Religiosa
Siamo così arrivati a descrivere l’ultima dimensione relativa al tema del nutrire, ultima in termini di profondità della riflessione cristiana, tale da rivelarsi innata e radicata in ogni uomo: quella religiosa. Questa dimensione si dimostra essere il contenuto fondamentale di ogni declinazione della tematica del nutrire, dell’energia e della capacità di futuro del nostro pianeta.
Già nell’esperienza di fede ebraica, il pasto diviene luogo di memoria, deputato a ricordare alla creatura umana il suo legame con Dio ed il carattere vitale di questo legame. [Si legge nel libro del Deuteronomio [Cap 8, 12-15] “Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire.”] La storia del cristianesimo è piena di testimonianze della pratica del pasto come luogo di annuncio dell’amore di Dio e di verifica della fedeltà degli uomini. Il Dio cristiano è un Dio che si incarna, che si rende presente in mezzo all’umanità, e che consegna la memoria di questa sua presenza proprio nel pane eucaristico, un pane che dà vita e salvezza. L’incarnazione è il grande dono di Dio che porta nutrimento. Nel Vangelo di Giovanni [Cap.6, 48-51] Gesù afferma di sé stesso: “Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo , disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo.” La Chiesa fa memoria di questo dono proprio nel sacramento dell’eucarestia, memoria efficace della cena in cui Gesù Cristo ha consegnato il senso della sua morte per la vita di tutti. Ci ricorda l’Apostolo Paolo: “Ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”” [1Cor 11, 23-24]
A noi cristiani spetta il compito di rendere intellegibile questa logica eucaristica, mostrandone la forza generatrice di nuova vita; come fare? Possiamo partire proprio dal contenuto diretto del comando di Gesù, ovvero l’invito a fare, a operare. L’Eucarestia è anzitutto un’azione, un’operazione; è Gesù stesso che ci ordina di rifare a nostra volta ciò che Egli ha compiuto, in sua memoria. Si entra nell’esperienza del Dio cristiano solo attraverso la porta dell’agire, dell’operare; e non di un operare qualsiasi , ma di un operare legato al cibo, al pasto, al nutrimento. Questo “fare” è un agire ben determinato e non è altro che la dinamica di imitazione che sta alla base del cammino di sequela di molti santi, San Francesco d’Assisi in primis. La logica eucaristica è in grado di assumere e fare sue tutte le fami del mondo e degli uomini. Nella comunione sacramentale ciascuno di noi si unisce a Cristo come tutti gli altri comunicanti: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” [1Cor 10, 17]. La comunione mi tira fuori di me stesso verso Gesù e così anche verso l’unità con tutti i cristiani; diventiamo tutti “un solo corpo” fusi insieme in un’unica esistenza. Amore per Dio e amore per il prossimo sono ora veramente uniti. [Enciclica “Deus Caritas est” di Benedetto XVI]
Questo è ciò che Gesù già insegnava durante la sua predicazione. Leggiamo nel Vangelo di Luca [Cap.10, 25-30] “Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: “Maestro, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge?Come leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente; e il tuo prossimo come te stesso”. Gli disse Gesù: “Hai risposto bene; fa questo e vivrai”. Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?” E Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico …” Il resto della parabola (quella del buon Samaritano) è noto ai più, e costituisce una delle più terribili pietre d’inciampo per tutti, cristiani e non cristiani, credenti e non credenti. Un uomo, un ebreo, che dalla Città santa scende verso il Mar Morto viene assalito da briganti, che lo spogliano e lo lasciano a terra ferito e impotente: ciascuno di noi, nel corso della sua vita, incappa prima o poi in qualcuno di questi “briganti” ora esterni a noi ora (e sono i peggiori) interni: violenza, malattia, tradimento, errore, incidente fatale, povertà, miseria, tristezza, crimine, ignoranza, solitudine, ingratitudine, egoismo, incapacità di reagire positivamente, incapacità di perdonare, odio, disperazione … Quell’ebreo, quell’uomo forse fino ad allora ricco, potente, rispettato, ora sanguinante a terra è abbandonato da tutti, specialmente da coloro dai quali più si sarebbe aspettato soccorso e che più avrebbero avuto il dovere di aiutarlo: un sacerdote, un levita, che si tirano da parte e passano oltre. Quanti di noi, sui marciapiedi delle nostre città o negli angoli delle stazioni ferroviarie e metropolitane, volgono lo sguardo altrove o girano al largo dinanzi allo spettacolo della mendicità e del dolore; oppure trovano facile auto giustificazione considerando che quegli stracci o quelle piaghe altro non sono che abiti di scena di furbi professionisti della simulazione, di gente che non vuol lavorare (anche quando il lavoro non c’è), di gente che dovrebbe stare a casa propria (anche se dalla loro casa è stata cacciata dalla violenza di uomini armati di ordigni costruiti nel nostro ricco Occidente). Siamo davvero tutti ebrei, come retoricamente ci capita di proclamare talora commemorando la Shoah: solo che spesso lo siamo come quel sacerdote o come quel levita, che chiusero gli occhi dinanzi al proprio dovere e all’altrui sofferenza passando oltre, convinti di avere le ragioni per farlo; c’è sempre, vicino o lontano, qualcuno che ci aspetta, un lavoro da fare, un dovere da compiere, un favore promesso a qualcuno, un’azione che non può essere rimandata, una necessità impellente. Così però non ragiona un samaritano, un appartenente ad un popolo affine agli ebrei ma che essi disprezzavano ritenendolo bastardo e impuro. E’ lui a fermarsi alla vista di quell’uomo prostrato e sofferente, a fasciare le sue ferite dopo averle lavate e cosparse di vino e d’olio, a caricarlo sulla sua cavalcatura e a portarlo al più vicino ricovero disponendo che egli sia curato e mantenuto a sue spese fino a guarigione avvenuta. “Chi è stato il “prossimo” dell’uomo ferito sulla via di Gerico chiede dunque Gesù al dottore della Legge (che alla luce delle norme ricevute da Mosè non avrebbe potuto riconoscere altro “prossimo” se non in altri ebrei). “Colui che ha avuto compassione di lui (o ha usato misericordia)” è costretto a replicare il saggio interlocutore. “Va’, e fa anche tu lo stesso” gli viene replicato da Gesù. Fa lo stesso con gli ebrei, con i samaritani, con i gentili, con qualunque appartenente a quella specie umana che Dio ha creata pura e alla quale, come prediletta, ha affidato la custodia del creato; con qualunque appartenente a quella specie per la redenzione della quale il Cristo ha voluto incarnarsi, vivere, soffrire, morire e risorgere.
Come applicare dunque concretamente nella nostra vita l’amore per il prossimo in modo particolare in relazione alla tematica di EXPO 2015? Prendendo spunto da un’altra parabola di Gesù, quella cosiddetta della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”. In realtà si dovrebbe parlare più propriamente di distribuzione, perché in effetti è quello che Gesù compie dopo aver reso grazie al Padre. “Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto. Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.” [Gv 6, 11-13] Questo insegnamento ha portato Caritas Ambrosiana a formulare questo slogan, apparentemente paradossale: “Dividere per Moltiplicare” Il paradosso è solo apparente perché si parla di una realtà vera e nota anche nella quotidianità: dividere, nel senso di con-dividere, crea l’occasione per moltiplicare le risorse a vantaggio di tutti i soggetti coinvolti. Dividere le risorse per moltiplicare le energie. Come una riunione di lavoro in cui la messa in comune di informazioni e conoscenze arricchisce ciascuno e porta il gruppo a trovare la soluzione al problema posto; oppure come una tavolata di persone in cui ciascuno porta qualcosa da mangiare e tutti assaggiano pietanze varie e magari ne scoprono di sconosciute; oppure ancora come uno spazio in città in cui diversi professionisti mettono in comune le scarse risorse economiche di cui dispongono e usufruendo in tal modo di una postazione lavorativa in un luogo in cui da soli non avrebbero potuto accedere. [….]
[Relativamente alla dimensione della divisione che crea unità è emblematico questo richiamo del monaco della comunità di Bose Luciano Manicardi [“Liturgia e carità. L’originalità della sintesi eucaristica.”- La Rivista del Clero Italiano n.6/2014, p.5]. Il brano dell’Evangelista Luca sui “Due discepoli di Emmmaus” [Lc 24, 13-35] presenta un movimento di divisione e di separazione, di perdita di unità, di allontanamento, di abbandono. Abbandono dalla comunità, ma anche distanza e conflitto tra i due discepoli che discutono, si scagliano contro parole, con la foga e l’irruenza di chi ritiene di aver ragione e combatte chi la pensa diversamente. […] Ora, il momento decisivo del cambiamento dei due […] è il momento della fractio panis. “Pronunziò la benedizione, spezzò il pane e lo diede loro, allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero”. […] Il passaggio dalla divisione alla comunione avviene, paradossalmente, grazie ad un atto di divisione, a un gesto di frattura, grazie allo spezzamento del pane. Questo gesto è al cuore di ogni umana comunione in un pasto, dove è simbolo di convivialità e condivisione del cibo; ma è anche al cuore dell’Eucarestia: è il pane spezzato che crea l’unità. […] Indica la via della con-divisione, della relazione, dell’uscita da sé per fare spazio all’altro, del non tenere per sé ma del mettere a disposizione dell’altro.]
Poiché dunque il Dio che ci si è rivelato, il Dio in cui crediamo, si è fatto pane nel Figlio morto e risorto per la nostra salvezza, noi cristiani a nostra volta siamo invitati a farci pane per gli altri, ad essere cibo che sazia la loro e la nostra fame. Siamo chiamati anzitutto a costruire legami ed esperienze di dialogo, capaci di solidarietà e condivisione e siamo nel contempo chiamati a mostrare la natura profonda e vera dell’uomo, a svelare l’anima mistica dell’identità umana e la dimensione radicalmente religiosa del creato. A partire da questo duplice atteggiamento di dialogo e di ricerca mistica, la presenza cristiana in EXPO 2015 si può fare annuncio e denuncia: esserci per condividere, esserci per dare a pensare, esserci per aiutare a stupirsi, esserci per promuovere giustizia e solidarietà. Questa manifestazione può essere l’occasione per ricordare a tutti il cammino che come umanità stiamo percorrendo, per rispondere all’invito che Dio ha rivolto a tutti, di sedersi alla sua tavola.

Bibliografia:
• Pontificio Consiglio Della Giustizia e Della Pace “Terra e Cibo” – Libreria Editrice Vaticana”
• Luca Bressan “Dio ci invita alla sua tavola (Idee e domande di fede intorno a Expo 2015)” – Editrice Missionaria Italiana
• Pierangelo Sequeri “Custode non tiranno (Per un nuovo rapporto fra persona e creato)” – Editrice Missionaria Italiana
• Franco Cardini “Il cibo donato” (Piccola storia della carità) – Editrice Missionaria Italiana
• Simona Beretta, Sara Balestri “Contro la fame” (Diritto al cibo) – Editrice Missionaria Italiana
• Luigi Ballerini “I bravi manager cenano a casa” (Mangiare in famiglia fa bene a tutti) – Editrice Missionaria Italiana
• Luciano Gualzetti, Sara Zandrini “Dividere per moltiplicare” (La condivisione fa crescere il ben-essere) – Editrice Missionaria Italiana
• Giovanni Cesare Pagazzi “La cucina del Risorto” (Gesù cuoco per l’umanità affamata) – Editrice Missionaria Italiana

AllegatoDimensione
Predicazione 2a settimana di MAGGIO 2015 - GiovanniG.doc92 KB

Introduzione a Bibbia e Catechesi

Il titolo del menù Bibbia e Catechesi merita una breve introduzione.

Da numerosi decenni ogni parrocchia offre corsi di catechismo, il che spontaneamente riporta agli incontri dell'età del bambino e al massimo del ragazzo. Rispetto a questa abitudine il nostro titolo presenta due varianti.
La prima parla di Catechesi, termine evidentemente affine a quello di catechismo, ma che richiama un pò meno l'età infantile e pertanto si adatta anche ai giovani e agli adulti. Anzi, a onor del vero, la catechesi si rivolge anzitutto proprio ai giovani e agli adulti, cioè alle persone che liberamente dispongono della loro vita in rapporto alla chiamata alla fede. Per questo l'ordine delle voci non sale dai bambini agli adulti, ma scende dagli adulti ai bambini.
Dunque la catechesi è l'incontro di chiesa che mira ad arricchire e ad approfondire la personale adesione al Vangelo di Gesù Cristo.
E i bambini e i ragazzi? Il loro orientamento all'incontro col Signore è mediato in modo essenziale dai genitori: sono essi i primi testimoni ed educatori dell'esperienza cristiana; sostenuti dalla chiesa, in particolare dalla comunità parrocchiale, i genitori trasmettono ai propri figli soprattutto il gusto, il sapore della fede, la bellezza dell'affidare a Dio la propria vita. Dentro le esperienze quotidiane della famiglia, della preghiera, dell'amicizia, della scuola, del gioco, dell'aiuto al bambino meno fortunato o ammalato, della partecipazione alla Santa Messa, ecc.  

Ebbene, essendo l'adesione di fede al Signore Gesù una scelta totale della vita, la catechesi (termine che significa insegnamento) non può limitarsi all'istruzione, cioè a offrire nuovi elementi di conoscenza: la conoscenza si unisce all'amore, l'amore alla preghiera, la preghiera alla pratica dei comandamenti di Dio, e questa alla ricerca del bene nelle problematiche condizioni odierne della vita individuale e collettiva, e così via. In una parola la catechesi si amplia fino a comprendere l'intera esperienza della vita, vissuta nella luce della fede.

Infine donde viene tale luce? Essa viene dalla rivelazione di Dio, cioè da Dio che apre la sua vita intima e la partecipa gli uomini. La grande testimonianza di questo dono è depositata negli scritti dell'Antico e del Nuovo Testamento: la Bibbia raccoglie, contiene ed è la Parola viva che Dio pronuncia a favore degli uomini. Così viva che la Parola è personalmente Gesù stesso. Per questo motivo, in modi diversi e appropriati, la catechesi parte dalle e ritorna alle Sacre Scritture, fonte inesauribile di sapienza.

Speriamo pertanto di offrire in questa sezione anche qualche spunto per la lettura, la comprensione e la preghiera Scrittura alla mano. Mentre informiamo e accettiamo suggerimenti per gli incontri di catechesi parrocchiale.

 

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