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Raccontare l’Africa non rende alla carriera - Domenico Quirico al Festivaletteratura 2017

Ho iniziato il Festivaletteratura 2017 con l'evento " Raccontare l'Africa non rende alla carriera", incuriosita dalla presenza di Domenico Quirico, giornalista de La Stampa, che in marzo era stato vicino a partecipare alla nostra festa parrocchiale. Felice di poterlo finalmente ascoltare ma consapevole che la “botta” da prendere ascoltando un uomo che ha scelto di raccontare l’area più periferica del mondo, sarebbe stata dura. Ecco, non immaginavo quanto.

Per fare carriera i corrispondenti puntano agli Stati Uniti, il cuore dell’economia e della politica mondiale. Lui no. A Domenico Quirico l’economia, il PIL, l’organizzazione mondiale, non sono mai interessati. “Mi interessano gli uomini, le loro storie, le domande che si pongono ogni giorno, quindi la scelta dell'Africa è automatica!”
Le domande che si pone l'uomo africano ogni giorno sono: sopravviverò fino a domani, troverò qualcosa da mangiare? Qualcuno mi farà fuori con un macete? Dio dov'è?
L'uomo di fronte al suo destino è lì.
Tutti i continenti hanno conosciuto uno sviluppo nell’ultimo secolo, quale più quale meno. Tutti tranne l’Africa. Gli africani vivono con meno di quanto avevano negli anni 60.
E chi li conosce gli africani?
Non la maggior parte dei giornalisti, molti dei quali confondono il Niger con la Nigeria…
Non i “politicanti” che si occupano del problema mondiale dell'immigrazione, ma non sanno dov'è il Togo, qual è la capitale del Gambia, figuriamoci cosa in quei luoghi succede…
Abbiamo cominciato a conoscere gli africani quando sono sbarcati a Lampedusa coi barconi. L’Africa è venuta qui a farsi conoscere e ci interessa nella misura in cui la vediamo. Nel momento in cui qualcuno ce la renderà di nuovo invisibile, come già sta iniziando a succedere... non ci interesserà più, torneranno a leggersi sui giornali dieci righe ogni tanto.
Secondo Quirico il cosiddetto mal d'Africa è una cretinata bestiale: “Non mi viene l’esaltazione per la savana, per i paesaggi, no... mi attirano gli africani perché hanno qualcosa di importante da insegnare: la tenacia mistica del sopravvivere!”

Non c’è bisogno di stimolare la sua riflessione, è un fiume in piena, con la passione nella voce di chi si è contaminato dell’orrore di certe situazioni, di chi si è sporcato con la vita degli africani, mica l’ha vista dal quartier generale delle agenzie di stampa che vendono news preconfezionate in tutto l’occidente. Di tanto in tanto prende fiato e così Valerio Pelizzari, uno tra i primi venti corrispondenti di guerra del mondo, gli offre qualche spunto su cui farci riflettere.
Gli chiede di raccontarci che rapporto hanno i cinesi con l'Africa, perché ne sono interessati, e il giornalista della Stampa riprende la narrazione con il suo incedere appassionato.

Fino a poco tempo fa erano interessati alle materie prime, per alimentare il loro forsennato sviluppo. I cinesi non si pongono domande, lavorano velocissimi, i risultati del loro lavoro assomigliano a quelli ben fatti, poi è lo stesso se dopo tre mesi la strada costruita collassa o nell’edificio spuntano crepe... lavorano con la loro manodopera a bassissimo costo, non fanno domande alle classi dirigenti africane su come hanno ottenuto il potere, se le elezioni erano vere o truccate...
Adesso però, come accade in tutti gli imperialismi, si stanno accorgendo che dal fattore economico bisogna passare allo stadio successivo, a controllare i luoghi. Così per es. a Gibuti hanno costruito una base navale anche loro (le altre potenze mondiali c’erano già tutte). La scusa è che vogliono difendere le loro navi dai pirati. I cinesi stanno passando a questa seconda fase, anche se in generale l’atteggiamento della Cina è autoreferenziale, e dunque un po’ distaccato.

Un’altra breve pausa consente a Pellizzari di mettere il focus sul ruolo della classe dirigente africana, che quando si presente nelle occasioni di incontro internazionali, appare piuttosto arrogante, dissipata.

Negli anni l'occidente ha rovesciato miliardi di dollari per la voce "sviluppo dell'Africa". Soldi veri, tanti, spesi dai governi occidentali. “Aiutarli a casa loro” non è una novità inventata negli ultimi mesi di campagna elettorale perenne.
In Ciad hanno il lago Ciad, un “mare interno”, che si sta prosciugando perché prima sulla sua costa vivevano circa 200.000 persone, adesso ce ne sono alcuni milioni. Altro che surriscaldamento globale, è che non ce n’è per tutti...  Lì le strade sono solo intorno alla capitale, in tutto il resto del territorio ci sono solo piste di sabbia tramite cui si raggiungono i villaggi. Ebbene, alle porte di ogni villaggio c'è il cartello con la bandiera della UE o della Francia, o di qualche altro stato occidentale e la scritta: "Progetto per l'irrigazione, progetto per l’infrastruttura tal dei tali… progetto per… " . Solo che poi entri nel villaggio e il progetto era solo sul cartello, non c'è mai niente di realizzato davvero.
La domanda è: chi si è rubato i soldi?
L’enormità di soldi stanziata per l’Africa è finita per metà nelle tasche della classe dirigente africana, quelli che l'Occidente ha messo al potere in quei paesi, l’altra metà nelle tasche dei governanti occidentali in cambio dell’acquisizione del controllo del potere in quei luoghi... Le vittime sono gli Africani che non hanno avuto niente e vivono da sempre nella assoluta povertà.
Quindi la favola che dobbiamo aiutarli a casa loro non esiste... chi controlla dove vanno a finire i soldi se il ministro del Ciad è a libro paga del ministro francese per favorire acquisti sono dalle industrie francesi? Questo è il sistema!!
C'è gente che è nata e cresciuta a Daadab, il campo profughi più grande del mondo. 500 mila persone che sopravvivono in condizioni disumane tra Somalia e Kenia (consiglio di digitare su Google Daadab e guardare qualche immagine per farsi un’idea). E’ un campo che esiste da oltre 25 anni, anzi, la somma di più campi, addirittura molte persone sono nate e cresciute lì senza mai uscirne. Quello che colpisce è la disperazione umana e l'immobilità. La Somalia è un problema insolubile, tra 30 anni si diranno le stesse cose.
In quella zona sono presenti tutte le organizzazioni umanitarie. Gli operatori stanno lì, in una struttura separata dal campo profughi circondata da un doppio giro di filo spinato alto più di due metri, con mezzi blindati che girano tutto intorno, armati.
I giornalisti vanno a vedere la situazione scortati. “Io non sono un embedded, quindi ci sono andato come volevo io, con un keniota tra l’altro molto simpatico, e ho visto cose incredibili”.
Alle 17 distribuiscono la cena poi vanno via, i buoni samaritani, e si chiudono nella loro zona. La domanda è: perché uno che va aiutare la gente a non crepare di fame deve vivere blindato e difeso dai carri armati? Perché vive al centro dell'Africa come e meglio che se vivesse a New York?
I missionari cristiani, su cui nel tempo sono state rovesciate tutte le peggiori critiche, perché andavano a portare un pensiero e una cultura diversa da quella degli autoctoni, vanno in missione e vivono insieme agli indigeni, prendono le stesse malattie, muoiono per le loro stesse ragioni. E’ un modo eticamente più onesto rispetto a questa carità miliardaria.
Il campo di Daadab è sempre lì, uguale a se stesso. Quando finiscono i soldi per pagare 5000 euro al mese il funzionario di turno, che va lì con lauree e master in cooperazione internazionale, allora vengono fuori gli articoli sui giornali che parlano di Daadab, per raccogliere i soldi che servono a mantenere quella macchina.
Noi occidentali facciamo mille volte al giorno un gesto semplice... aprire il rubinetto. E scende l'acqua. Un clik… e si accende la luce. Abbiamo cancellato la notte. Si cambia il rapporto con la natura, con il tempo…
Ci sono milioni di uomini per cui questi gesti non esistono, neanche come idea. La “mondializzazione” è una bufala gigantesca. Dice Marchionne che la stessa auto la puoi vendere a New York e a Biella. Un computer è uguale in qualunque parte del globo. Peccato che ci sono due terzi del mondo che non ha la corrente elettrica, non può attaccare la spina da nessuna parte. Queste persone escono di casa e devono fare 10 km portandosi un otre sulla testa per poter bere un po’ d’acqua.
A furia di frequentare questi luoghi ti si apre una frattura dentro e non riesci più a posizionarti in equilibrio, si prova più disagio a stare in questa parte del mondo, dove questi gesti sono alla portata di tutti…
L’obiettivo che si pongono i politici non è risolvere il problema della migrazione, Per loro l'obiettivo è rendere invisibile i migranti. Nel momento in cui non li vediamo più il problema non c'è più ... ma non è certo questo il punto.
È una questione di diritti, i diritti universali di sopravvivere, enunciare le proprie idee, andare in un posto o in un altro senza che nessuno te lo possa impedire. Quando questo non accade c'è qualcosa che si sta sgretolando. È la nostra identità come occidente che viene meno, la nostra cultura...
L’occidente ha avuto il merito di creare un concetto di “diritto” attribuendolo a un essere vivente astratto, indipendentemente da dove abita, dove è nato, cosa crede. I diritti universali sono di tutti, vanno attribuiti a ogni individuo, a ognuno di questi che arrivano. Perché ognuno di loro ha un motivo diverso per emigrare. Uno fugge dalla guerra, uno vuole diventare uomo, uno vuole affermarsi nel lavoro, uno vuole costruirsi una famiglia, uno vuole garantire una vita migliore alla sua famiglia. È la straordinaria complessità di questa umanità. Se non riconosciamo questo ci automutiliamo e siamo destinati a perire come cultura.

Ecco, sul finire di questo incalzante racconto, Pellizzari mi toglie di bocca la domanda che avrei voluto porre a quest’uomo magro e nervoso, che tra le sue esperienze annovera cinque lunghi mesi di prigionia in Siria, in condizioni estreme: il contatto con il male, come si gestisce, cosa lascia dentro?

L'unico modo per conoscere il male e raccontarlo è immergervisi, scoprire com’è, come manipola le persone. Non si può immaginare quanto sia enorme il male con la M maiuscola.
Ogni tanto il suo contrario, che forse si può definire “bene”, lo annacqua. E’ l'uomo che compie degli atti che in qualche modo cancellano o attenuano il male. Sono azioni, non ideologie, non pensieri: il bene e il male sono conseguenze delle azioni umane.
La frequentazione del male ha un prezzo, non lo maneggi senza scottarti, senza avvelenarti. Non diventi automaticamente un uomo migliore. Il contatto con questa realtà ti mette in un limbo in cui ti accorgi che non puoi più fare certe cose. L'esposizione alla radiazione del male è troppo forte. “Confesso che sono un po' stanco, non fisicamente, corro ancora la maratona, ma sono stanco dentro. Nel 2011 ho fatto un viaggio con i migranti da Zarzis a Lampedusa, con affondamento del barcone. Abbiamo scritto, detto, fatto conoscere, in tutti questi anni. Eppure adesso potrei rifarlo uguale, partendo un po’ più in là, dalla Libia, addirittura pagando meno di allora… Quindi cosa ho ottenuto? Non so neanche se la gente si commuove più... e allora?” 

Rimane lì sospesa questa domanda drammatica, mentre i tempi a disposizione per l’incontro sono terminati. Non riesco a trattenere silenziose lacrime, sembra davvero tutto sbagliato, tutto quello che l’uomo ha costruito si fonda sulla disuguaglianza e sul sopruso, con la maggior parte del mondo nascosta agli occhi perché scomoda. Cosa vediamo quando incontriamo per strada queste persone? L’invasore, l’aggressore, una minaccia al nostro status quo. Come aprire gli occhi per vedere quello che davvero sono? Persone a cui il nostro modo di vivere squilibrato, ha creato povertà, infelicità, disperazione, morte. Come difenderci da quello che altri vogliono farci vedere? Come sottrarsi al pregiudizio, allo stereotipo?
Mi sembra che l’unico appiglio da cui ripartire sia il concetto che il bene e il male sono conseguenza delle azioni delle persone, non delle ideologie o di altro. AZIONI, dunque alla portata di ogni persona, quindi anche alla mia. Andiamo avanti, con un pizzico di consapevolezza in più, certo lo scossone è stato violento.
Grazie Domenico Quirico!

Grazie e costante attenzione

Grazie a Cristina per l'ottima sintesi e per aver richiamato anche la mia attenzione all'Africa. Per molti forse il grande continente è quasi solo il problema dell'immigrazione: dal nord Africa all'Italia, dal centro Africa attraverso infinite vicissitudini al Nord Africa, solo per affrontarne altre, se non peggiori.  Che mondo è dunque il nostro? Ci sfugge, e nel frattempo soffre, questo è il dato indubitabile. Inquieto si aggira Domenico, come ogni uomo, senza venire a capo di nulla. La speranza è faticosa, costosa e preziosa insieme. Ma se la chiudiamo nello sconforto cosa ci resta? Ci resta qualche segno, come quello che Arianna ha voluto lanciare con la sua scelta di partire volontaria con una mssione cattolica in una zona sperduta del poverissimo Mozambico. Speriamo di riuscire a mantenere vivi i contatti, per ricevere, per ricevere ancora, e forse anche dare qualcosa attraverso fratelli e sorelle che in qualche modo ci rappresentano.

LA TENTAZIONE

chiudere occhi e orecchie ... restare nel quieto nostro vivere .... fingere che nulla di quanto hai detto sia reale ....
Sissi