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Dibattito Chiesa

La verità è una relazione!

11-09-2013 - Pubblicata stamani sul quotidiano La Repubblica un’ampia lettera di Papa Francesco inviata a Eugenio Scalfari, fondatore ed ex direttore del quotidiano, in risposta alle domande che gli aveva posto su fede e laicità.

Di seguito, il testo della Lettera.

Pregiatissimo Dottor Scalfari,
è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.

La ringrazio, innanzi tutto, per l’attenzione con cui ha voluto leggere l’Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell’intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l’ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l’ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce «un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth». Mi pare dunque sia senz’altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.
Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio. La prima circostanza — come si richiama nelle pagine iniziali dell’Enciclica — deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell’uomo sin dall’inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d’ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d’impronta illuminista, dall’altra, si è giunti all’incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro. La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell’esistenza del credente: ne è invece un’espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un’affermazione a mio avviso molto importante dell’Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell’amore — vi si sottolinea — «risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti» (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.
La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l’accesso all’intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa — mi creda — non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell’immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d’argilla della nostra umanità. Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell’ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme. Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell’editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso — o se non altro mi è più congeniale — andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall’Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all’esperienza storica di Gesù di Nazareth.
Osservo soltanto, per cominciare, che un’analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell’Enciclica, di fermare l’attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell’Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione. Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo «scandalo» che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria «autorità»: una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è «exousia », che alla lettera rimanda a ciò che «proviene dall’essere» che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire— egli stesso lo dice — dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa «autorità» perché egli la spenda a favore degli uomini. Così Gesù predica «come uno che ha autorità», guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona... cose tutte che, nell’Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: «Chi è costui che...?», e che riguarda l’identità di Gesù, nasce dalla costatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un’autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l’incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine. Ed è proprio allora — come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco — che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l’uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch’egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l’ha rifiutato, ma per attestare che l’amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.
La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell’amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell’incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva «caro cardo salutis», la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l’incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell’amore e nella fedeltà all’Abbà, testimonia l’incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce. Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell’Enciclica.
Sempre nell’editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l’originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull’incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio. L’originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell’amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell’unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l’esclusione. Certo, da ciò consegue anche — e non è una piccola cosa — quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel «dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare», affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell’Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l’amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all’uomo, a tutto l’uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là.
Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo — mi creda — un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l’aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch’io, nell’amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire,con l’apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all’alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell’alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.
Vengo così alle tre domande che mi pone nell’articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l’atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che — ed è la cosa fondamentale — la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.
In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità «assoluta», nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: «Io sono la via, la verità, la vita»? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all’inizio di questo mio dire. Nell’ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell’uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell’uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio — questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! — non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo. Dio è realtà con la «R» maiuscola. Gesù ce lo rivela — e vive il rapporto con Lui — come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell’uomo sulla terra — e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno — , l’uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l’universo creato con lui. La Scrittura parla di «cieli nuovi e terra nuova» e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà «tutto in tutti».
Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all’invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall’Abbà «a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc4, 18-19).
Con fraterna vicinanza, Francesco

(fonte: http://www.news.va/it/news/lettera-di-papa-francesco-a-eugenio-scalfari)

Margherita Hack... "sarebbe bello essersi sbagliati"

In questi giorni che seguono la morte di Margherita Hack siamo tutti circondati da un improvviso fiorire di citazioni di questa grande donna e scienziata, soprattutto in materia di fede ed ateismo. Frammenti di frasi spesso spesi in chiave ideologica (della scienziata e divulgatrice si parla molto meno).
Per quanto mi riguarda, in Margherita Hack ho potuto cogliere invece il tentativo di leggere la fede nel quadro dell'approccio scientifico, ma con grande onestà intellettuale, cioè con la consapevolezza che si trattava di un tentativo estremo in qualche modo disperato.

E allora mi permetto anch'io una citazione, che mi pare renda ragione della sofferenza e dell'onestà di questa ricerca, in cui Margherita con semplicità riconosce proprio l'impossibilità di affidare alla scienza le chiavi della ricerca di una "risposta totale" sulla vita:

"La scienza non riesce a dare una risposta totale. Quindi il mistero c'è certamente. Se quando morirò dovessi scoprire che c'è la vita eterna, direi a Dio che ho sbagliato. E forse tutto sommato, sarebbe bello essersi sbagliati. (Dove nascono le stelle, Sperling & Kupfer, Milano 2004, pag. 198)"

Cara Margherita, per una volta almeno ti auguro di cuore di esserti sbagliata, e di poter contemplare ora nella maniera più luminosa possibile il mistero della vita, dell'Universo e del creato intero.

Papa Francesco. Solo per condividere con voi una grande emozione, che sorprende me stessa, prima di tutto

Mi ha emozionato la scelta del Conclave. Papa Francesco, italo-argentino. Un grande Papa, un grande Vescovo per la città di Roma. Ha pronunciato le parole giuste per i nostri cuori feriti. È una risposta forte alla crisi della Chiesa. Un pastore coraggioso, molto amato dal suo popolo, che ci riporta alla chiesa povera, delle origini. Farà grandi cose. La chiesa si aprirà alle giuste esigenze laiche. Speriamo che abbia buona salute (ma l'aspetto fa ben sperare).
Vedrete che sistemera' anche quel covo di malaffare che e' lo IOR. Preciso che non voglio urtare la suscettibilità di nessuno; sono solo i miei pensieri a caldo, alla prima visione del Papa. Buon lavoro e lunga vita al nostro caro Papa Francesco e saluti a tutta la calda comunità parrocchiale di sant'Egidio.

Il Papa su Twitter

Come ampiamente annunciato da tutti i media, dallo scorso 12 dicembre papa Benedetto XVI è sbarcato su Twitter: tutti coloro che dispongono di un account su tale social network potranno diventare suoi "followers".

Per chi è meno familiare con le nuove modalità di interazione, ricordo (citando per comodità fonte Wikipedia) che "Twitter è un servizio gratuito di social network e microblogging che fornisce agli utenti una pagina personale aggiornabile tramite messaggi di testo con una lunghezza massima di 140 caratteri. E' stato creato nel marzo 2006 dalla Obvious Corporation di San Francisco. Il nome Twitter deriva dal verbo inglese to tweet che significa 'cinguettare'. Tweet è anche il termine tecnico degli aggiornamenti del servizio. Gli aggiornamenti sono mostrati istantaneamente nella pagina di profilo dell'utente e comunicati agli utenti che si sono registrati per riceverli (followers). È anche possibile limitare la visibilità dei propri messaggi oppure renderli visibili a chiunque. Twitter il 22 febbraio 2012 ha raggiunto i 500 milioni di utenti attivi che fanno accesso almeno una volta al mese."

Riepilogando "in pillole":

Come diventare "follower" del Papa? Occorre registrarsi al social network Twitter (https://twitter.com/), quindi digitare l'indirizzo dell'account italiano del papa (https://twitter.com/Pontifex_it) e infine cliccare sul bottone "Segui".

Cosa comporta diventare "follower" del papa? Significa fondamentalmente che ogni volta che il Papa pubblicherà un suo messaggio (tweet), questo sarà immediatamente disponibile e visualizzato sulla home page dell'utente registrato.

Quanti "followers" ha il Papa su Twitter? A 2 giorni dalla nascita, il suo profilo italiano ha 172.793 followers. I followers sono invece oltre 1.130.000 per l'account in lingua inglese (https://twitter.com/Pontifex).

Che dire? Tutti gli strumenti possono essere buoni o cattivi, rilevanti o irrilevanti, utili o inutili: dipende dall'uso che se ne fa. Tanti auguri a papa Ratzinger e al suo staff on-line di trovare linfa di comunicazione e di coinvolgimento utilizzando anche questo nuovo interessante media, che di fatto al momento rappresenta il blog universale più capillare e diffuso della Rete.

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